venerdì 25 settembre 2009

Sul Gargano con il VW T1

Negli anni 70 il mio amico E. (con cui mi vedo ancora occasionalmente), ragioniere diplomato, stufo di lavoretti del piffero e sottopagati, decise di mettersi in proprio.
Assieme al cugino avviò una piccola impresa di pulizie e manutenzioni che costituì per lui il trampolino di lancio verso una non disprezzabile carriera tuttora in corso.
Il parco macchine aziendale era costituito dalla sua rugginosa R4 e dalla terrificante Peugeot 404 del cugino, entrambe meritevoli d’onorata sepoltura e comunque insufficienti a trasportare le attrezzature; d’altronde il capitale iniziale non era molto consistente.
Ma a ogni problema c’è soluzione, basta cercarla, per cui, non so bene né come né dove, i due spericolati compari riuscirono a scovare un VW Transporter T1, con 400.000 km sul groppone, d’età indefinibile, e a portarlo via per una pipata di tabacco.
Il mezzo, sebbene in stato preagonico, faceva molto fico: va infatti detto che i furgoni VW furono un “must” per hippies e giramondo d’ogni contrada, personaggi anticonformisti, con pochi quattrini in saccoccia, chitarra a tracolla e spirito d’avventura (i quali poi magari crearono roba tipo Microsoft).
Ovunque nel mondo il successo del Transporter fu tale che, ancora negli anni 70, il mezzo era molto considerato, soprattutto se scarrupato come quello in questione: infatti all’epoca andava di moda il tipo un po’ balengo, quello che se ne infischia delle convenzioni sociali, della robaccia griffata, dell’“happy hour”, dei “resort” a sei stelle e del SUV tedesco nero lucidato a specchio.
Un dato storico: all’epoca in cui i giovani balenghi andavano per la maggiore il PIL nazionale aumentava del 7/8 % l’anno (roba da Cina d’oggigiorno!), e ciò nonostante l’inflazione a due cifre, i governi che cadevano come pere marce, gli scioperi selvaggi, gli attentati, gli atti terroristici e altre amenità... Viene da pensare che quella generazione di “giovani balenghi” si diede da fare per il nostro povero Paese più di quanto si voglia dar da intendere oggi.
Ma torniamo a noi.
Il T1 in questione, tanto per intenderci, era il modello con il parabrezza sdoppiato in due, cioè la primissima serie; il colore del mezzo potrebbe definirsi come “cacca-di-uno-che-ha-mangiato-due-marmittoni-di-zuppa-di-piselli-secchi”, se non che diffuse strisciate, ammaccature e nidi di ruggine rendevano più suggestivo il look d’assieme.
Nell’estate 75 non sapevo dove cazzo andare, per cui gradii molto la proposta d’aggregarmi fattami dall’amico E. il quale, per sfruttare al massimo le potenzialità del mezzo, aveva messo su un gruppetto d’altri desperados, aveva affittato un appartamento a Mattinata e s’accingeva a partire per la bella località garganica con il T1.
A bordo il posto per me c’era, ma vicino a un frigorifero che minacciava di travolgermi a ogni curva. L’elettrodomestico ce lo portammo appresso perché l’appartamento ne era sprovvisto... Altri tempi: a Mattinata l’acqua arrivava un paio d’ore al giorno, mentre stavamo al mare, per cui la padrona di casa ci usava la cortesia di riempire fiasche, taniche, secchi eccetera e fu molto seccata quando, una sera, ci colse sul lastricato solare mentre, in mutande, ci tiravamo a vicenda mestolate d’acqua;
“Ma come?” chiese con tono di biasimo “Vi lavate con l’acqua dolce?”
Figurarsi se poteva esserci un frigorifero: quello era un lusso presente in alloggi molto più costosi. Forse a Rodi o a Pugnochiuso, ma a Mattinata, se uno voleva una birrazza fresca, o andava al bar o si portava appresso il frigorifero. Quanto a me, come ultimo arrivato, dovetti adattarmi a dormire su un materassino gonfiabile con la testa sotto il lavello del cucinotto.
Riprendendo il filo del discorso, il motore del T1 era lo stesso del Maggiolino, cioè non precisamente un mostro di potenza. Per consentire al furgone un minimo di ripresa e di spunto in salita la trasmissione era stata modificata aumentando il rapporto finale di riduzione. Se ciò consentiva al mezzo di non bloccarsi a ogni cavalcavia, la velocità massima (di ben 115 km/h sul Maggiolino) risultava ulteriormente penalizzata. Considerata però la tenuta di strada non era poi una grossa limitazione: lungo l’“Adriatica” le raffiche di vento provocavano agghiaccianti scodinzolamenti malamente controllati girando e rigirando disperatamente il volantone orizzontale, per non parlare di quando ci sorpassava un TIR (ovviamente noi, lungo i circa 700 km di percorso, non ne sorpassammo manco uno).
Morale, ci rassegnammo a tenere una velocità di crociera sui 70 km/h, con punte di 75 in assenza di raffiche e con corsie libere su una distanza d’almeno 500 m davanti e dietro.
Un bel momento, stufo di lottare contro il frigorifero, chiesi di mettermi al volante ed E. m’accontentò. Provai così, per la prima volta nella mia vita, l’emozione di pilotare un veicolo industriale, e quando dico emozione non esagero: dopo qualche chilometro, uscendo da un tunnel vicino a Pedaso, una raffica di vento sballottò il veicolo spingendolo fino a pochi centimetri dal guardrail laterale. A quel punto dissi a E. “furgone tuo, cazzi tuoi” e preferii riprendere il mio duello contro il frigorifero.
Il mezzo percorse mediamente 5 km per litro di benzina super e, partiti alle 6 da Padova, giungemmo sul Gargano alle 22. Colà mi ci volle qualche bicchierozzo di buon rosso locale per allentare la tensione. Se penso che il mio Ducato 2800 TDCI fa 11 km con un litro di gasolio, fila a 150 km/h e pare viaggi sui binari non posso non rilevare i progressi compiuti anche nel campo dei furgoni, però...
Però ci fu anche qualche aspetto positivo. Come detto sopra, i furgoni VW all’epoca erano molto trendy e il bidone che ci portò a Mattinata non passò inosservato; il fatto ci consentì di stringere alcune amicizie non poco... ehm, come dire?... stimolanti.
Ma questa è un’altra storia.

martedì 22 settembre 2009

Sulle Dolomiti con la Simca "Ariane"

Ipotesi preliminare (un po’ fantasiosa)
Forse la faccenda cominciò in questo modo.
Una calda estate degli anni 50 il geom. Ambrogio Costacurta, impiegato di III livello al catasto di Bergamo Bassa, stava per recarsi in vacanza a bordo della sua “600” quand’ebbe un’illuminazione.
“Vacca boia!” si disse “L’è mai possibile che ogni volta devo dannarmi l’anima a riempire ‘sta dannata scatola di sardine con moglie, figli, suocera, cane, gatto, canarino, più masserizie varie sopra il tetto? Come l’è che le fabbriche pensano no di fabbricare un bel macchinùn grande, comodo, con un bagagliaio da mezzo metro cubo ma con un motore che beva no come un cammello? In fondo a me cosa mi frega se corre mica? Io massimo faccio i settanta, per me conta viaggiare comodi. E poi mica c’ho da pagare il mutuo io, visto che ho ereditato dal povero zio prete la casa di Curno... Adess’ ghe pensi mi.”
Detto, fatto: il geometra, usando abusivamente il ciclostile dell’ufficio, stampò una circolare in cui esponeva il suo problema e la inviò a varie case automobilistiche.
Le aziende manco gli risposero ma, all’interno d’alcune, alcuni dissero “Perché no?”
Così “Mamma Fiat”, a inizio anni 60, sfornò la “1500 Lunga” (carrozzeria della “1800/2300”, motore della “1500” normale); tale vettura, in Italia, fu un tragico flop; allora – tramite “Seat – la Fiat l’appioppò agli spagnoli e, in terra iberica, fu molto apprezzata dai tassinari.
Si era già negli anni 70 quando – nonostante i flop pregressi - la “Ford” decise di sfornare una mastodontica “Granada” motorizzata 1700.
Tuttavia il merito di prima azienda automobilistica a gettarsi nell’impresa spettò alla “Simca” (defunto “brand” noto soprattutto per avere prodotto modelli che eccellevano in mediocrità) la quale sfornò l’“Ariane”, ciclopica bagnarola presentata nientemeno che nel remoto 1957, con un motore che non raggiungeva i 1300 cc.
Perché, a mio avviso, tale genere di vettura non incontrò successo? Perché va bene risparmiare, va bene non correre come forsennati, ma quando il rapporto peso/potenza supera determinati limiti perfino certi motorucoli diventano assetati. Inoltre, anche se non si corre, può sempre essere utile una scorta di ripresa e certi pachidermi, invece, erano asfittici fin dalla nascita.
Quanto al geometra Costacurta, non se ne seppe più nulla ma si bisbiglia che si gettò con la sua “Ariane” in un baratro della Val Brembana.
Testimonianza personale.
L’ultimo inverno degli anni ‘60, assieme a un nutrito gruppo d’amici buontemponi, affittai una baita sulle Dolomiti in cui trascorrere le ferie di fine anno.
Purtroppo, però, c’era un problema: la “flotta” del gruppo consisteva in una “850 Special” più due “500”, le quali avrebbero dovuto trasportare un imprecisato numero di persone, più sci, racchette, scarponi, calzettoni, maglioni, mutandoni, un colossale televisore B/N da 35” funzionante a cazzotti, vettovaglie, damigiane di Merlot, eccetera.
All’ultimo momento s’era aggregato il possessore d’una “600” in fase terminale, però si trattava d’un incallito petomane e ubriacone per cui la sua vettura fu adibita a esclusivo trasporto merci a basso grado alcolico, ma ciò non bastava ancora.
Mezzi pubblici? Manco a sognarli: all’epoca raggiungere con i mezzi pubblici le Dolomiti dalla Bassa Padana richiedeva il tempo oggi necessario per il volo Caccamukatzu (OR) – Melbourne (causa treni, autobus, orari, eccetera, degni dell’Abissinia ante conquista mussoliniana), in più l’ultimo tratto non era servito da mezzi pubblici di sorta, per cui - se uno non disponeva di un’auto - bisognava che se lo sorbisse a piedi, bagaglio sul groppone e in mezzo alla neve (il “global warming” non era ancora stato inventato).
Il gruppo era radunato in una bettola d’infimo ordine per annegare lo sconforto nel vino quando il Gianni, uno di noi, sbottò: “Io un’idea ce l’avrei”. Colto da mistica ispirazione s’era ricordato che il padre lasciava ammuffire una vetusta Ariane - ancora in grado (forse) di marciare - in una stalla di periferia. Era priva di bollo - non ancora “tassa di possesso” ("Ehi, gente: se la Stradale ci becca paga la cassa comune, chiaro?" precisò il buon Gianni) - e la RCA non era ancora obbligatoria, per cui manco era assicurata (beata incoscienza giovanile!).
Eseguimmo l’ispezione: tinta bicolore grigio e blu elettrico, sedili e rivestimenti in “skai” color cacca d'ornitorinco, però sei posti comodi e bagagliaio grande come una stiva c’erano!
Incredibile a dirsi il micropropulsore - dopo mezz’ora d’espressioni tipiche venete, sbraitate dagli ispettori e vietate ai minorenni - s’avviò, tossicchiando ma s’avviò. Aprimmo con deferenza il cofano anteriore e rimasi esterrefatto: date le dimensioni del propulsore, piazzandoci sopra un piano in Eternit (materiale cha già all’epoca accoppava un sacco di gente ma nessuno se n’accorgeva), lo spazio tra questo e il coperchio avrebbe formato un altro vano idoneo a trasportare generi resistenti al calore (laterizi, cemento in sacchi, concime in secchi, scorie nucleari, proiettili all'uranio impoverito, eccetera).
Il problema era risolto, salvo che alla partenza ci fu una rissa perché tutti volevano occupare i due posti accanto al Gianni che, ovviamente, s’autonominò responsabile della spedizione e conducente unico della vettura.
Infatti l’aspetto più seducente della macchina erano il divanetto anteriore (divanetto unico, non poltroncine!), il cambio al volante e l’assenza delle monumentali consolle centrali che caratterizzano le vetture d’oggi e che i costruttori riempiono di comandi i quali non si capisce a che servano.
Davanti ci si poteva veramente stare in tre, e comodi!
Quindi decidemmo, per evitare un bagno di sangue, di fissare dei turni.
Cari giovani del terzo millennio, credetemi: viaggiare davanti in tre dava una sensazione unica! Sembrava di vivere in un “Road Movie” americano, con accompagnamento musicale di Jimi Hendrix, o Jim Morrison, o “Creedence Clearwater Revival”, con bottiglia di "Jack Daniel’s" e spinelli nel cassettino. Adesso solo la FIAT “Multipla” (con i suoi tre posti anteriori) potrebbe dare simili emozioni, se la magia di quell’epoca non fosse tramontata.
Su strada ghiacciata, nonostante la trazione posteriore, il ponte rigido e le balestre, l’“Ariane” era molto sicura... E te credo! Con quel peso e con quella potenza da ramarro rachitico non poteva permettersi il cosiddetto “sovrasterzo di potenza”: neanche volendo si riusciva a farla slittare, e i copertoni erano normali, mica chiodati! Riguardo ai freni, a tamburo e considerato il peso a pieno carico, non c’era verso che bloccassero le ruote, meglio che avere l’ABS.
Giunti sul posto, la pittoresca e rara vettura attirò l’attenzione d’altri giovani vacanzieri: di conseguenza, ogni sera, accolse - per andare a ballare o a fare un po’ di baracca - un numero di passeggeri ben oltre il limite consentito; ovvio che, se tra i passeggeri c’erano ragazze (e ce n’erano sempre), il casino era assicurato, anche perché eravamo degli scostumati e qualche sberla assestata da mano femminile la mettevamo in preventivo.
Il Gianni poi - nonostante il modo di fare piuttosto distaccato e flemmatico – ebbe modo d’approfittare della sua vettura per concedersi una... divagazione su cui, da quel signore che era, restò sempre molto abbottonato.
Le cose andarono così.
In un albergo del centro montano avevano trovato alloggio altri nostri compari e, nello stesso albergo, alloggiava quella che oggi si definirebbe una “sgallettata”: belloccia, sempre qua e là, indaffaratissima nella misteriosa ricerca non si sa di che né di chi, con indosso pellicciona, colbaccone, doposci in pelo di capra e attillatissimi fuseaux, i quali rivelavano particolarità anatomiche nient’affatto disprezzabili.
Una sera la fanciulla aveva un appuntamento con un non meglio definito qualcuno, ma in località un po’ distante, per cui lamentava nervosamente che in quel posto di m**** non fosse possibile trovare uno straccio di taxi.
A volte una fortunata combinazione deriva da prontezza di riflessi e, quella sera, il Gianni mostrò un’invidiabile prontezza di riflessi. Quando sentì la fanciulla esporre il suo problema ai compari radunati nella hall, in tutta fretta riuscì a procurarsi un cartoncino e un pennarello su cui scrisse “TAXI” a grandi lettere, lo attaccò al parabrezza dell’“Ariane” (vettura che, come auto pubblica, era molto credibile), parcheggiò davanti all’albergo e, con mirabile faccia tosta, entrò nella hall a chiedere se qualcuno avesse bisogno d’un taxi.
Inutile dire che la fanciulla si fiondò a bordo in men che non si dica e - siccome non doveva possedere un cervello granché più grosso d’un chicco d’uva – non notò che il cosiddetto “taxi” presentava qualche anomalia.
Come detto, il buon Gianni fu sempre abbottonato circa l’avventura. Io posso solo dire che, dopo un’oretta, lui e la sgallettata rientrarono con aria decisamente soddisfatta. Rammento peraltro che il divanetto anteriore dell’“Ariane” aveva lo schienale ribaltabile, per cui se ne poteva ricavare un’alcova assai comoda...
Lascio ad altri trarre le conclusioni.
Soprattutto per il buon Gianni fu una vacanza memorabile; del resto, mettendoci a disposizione la sua vettura, se l’era meritata ma, grazie anche alla mitica “Ariane”, neppure gli altri ebbero di che lamentarsi.

domenica 6 settembre 2009

Tre sfigati in Svezia

LA DECISIONE
Negli spensierati ma ancor morigerati anni 60 certi papà di certi “figli di papà” viziavano sì loro eredi, ma non più di tanto; correva infatti l’anno 1965 quando “Mastino” (amico e compagno di studi), visti i brillanti risultati conseguiti nei primi esami universitari, ebbe in premio dal padre - facoltoso industriale, non “imprenditore” come s’usa dire ai nostri giorni, quando anche i “vu’ cumprà” sono definiti imprenditori - una “Simca 1000” azzurro metallizzata con i soliti, infuocati sedili in Skai nero e autoradio “Voxon” a ricerca automatica elettromeccanica.
In pratica il marchingegno funzionava così: si premeva un pulsante, l’apparecchio si metteva a ronzare e si vedeva un indice rosso scorrere lungo la scala analogica fermandosi laddove la sintonia trovava una stazione sufficientemente forte. Peccato non ci fosse granché da scegliere: in AM si captavano i programmi del primo, secondo e terzo programma RAI, in FM invece, pure (le radio indipendenti erano ancora di là da venire); le onde corte c’erano ma era come se non ci fossero, e sfido chicchessia a captare le onde corte con un’autoradio. Le audiocassette, poi, erano agli albori e i costruttori d’autoradio non avevano ancora pensato al mangianastri, però secondo Mastino il “Voxon” era comunque una ficata tant’è vero che - poco dopo gli eventi sotto narrati - glielo fregarono; del resto il prezzo dell’apparecchio era pari a circa il 20% di quello della vettura, per cui rubare un simile “gioiello” fu piuttosto redditizio per il ladruncolo.
Ma non divaghiamo.
Per festeggiare il dono, una sera io e Mastino ci trovammo davanti a due monumentali “Forst” ghiacciate; un bel momento Mastino propose:
“Perché non ci facciamo un viaggetto in Svezia?”
“Con La Simca?”
“E perché no?”
“E perché proprio in Svezia?”
“Perché sembra che lì ci sia... ehm, da ravanare.” rispose Mastino con fare allusivo
Dovete sapere che in quegli anni, nel Bel Paese, circolavano piccanti leggende metropolitane circa l’avvenenza e la disponibilità delle ragazze svedesi, ma si trattava più che altro di storie messe in giro da tamarri (ce n’erano anche allora, e mica pochi, solo che guidavano la “Vespa 150 GS” invece della “Golf” nera usata; adesso saranno finiti in casa di riposo o sotto una lapide); questi bei tomi - dopo le ferie a Riccione o a Jesolo o a San Benedetto del Tronto - bisbigliavano d’aver sentito dire da uno, il quale bisbigliava d’aver sentito dire da un altro, il quale bisbigliava d’aver sentito dire da un terzo...
Adesso - nel corso dei miei itinerari europei - mi capita d’incontrare delle turiste svedesi più o meno coetanee e, se penso che quelle femmine contro ogni tentazione sono quanto rimane delle mitiche svedesi anni 60, sono tentato da lugubri progetti suicidi; per fortuna un paio di “Nardini Riserva” bastano a confortarmi.
Comunque la ghiotta prospettiva mi convinse per cui - ingollata la “Forst” e ordinato un altro giro - ribattei:
“Si può fare.”
Per dividere la spesa, Mastino decise d’aggregare l’amico “Patata”, uno che stravedeva per la “gnocca”, ma si trattava di tanto fumo e poco arrosto; comunque Patata si specializzò - guarda caso - in ginecologia diventando primario in non so più che ospedale. Non lo incontro da una vita ma sono pronto a scommettere che, anche se ne ha vista tanta per via della professione, non ha perso il “vizietto”.

I PREPARATIVI
Il mio bagaglio consisteva in:
· jeans e polo scura (che indossai per quasi tutto il viaggio),
· camiciotto simil-militare da alternare alla polo,
· maglione,
· piumotto da sci (si sa: a quelle latitudini il solleone se lo sognano),
· qualche canottiera da sotto,
· qualche atroce mutanda “basket” ascellare con spacco anteriore,
· qualche paio di calzini in “Terital” color topo che mi procuravano un fastidioso prurito alla caviglie,
· costume da bagno,
· cianfrusaglie assortite.
In più, siccome non si poteva mai sapere e perché all’epoca - visto che il “casual” non l’avevano ancora inventato - la tipica tenuta da fico era la seguente, ficcai in valigia:
· completo estivo giacca/pantalone color kaki (o cacca, allora andava di moda),
· camicia bianca con tendicollo brevettato (cos’è il tendicollo? Informarsi),
· cravatta “regimental” in sintetico.
La mia attrezzatura da campeggio consisteva in:
· tenda canadese “Pinetina” senza sopratelo né abside, teoricamente una biposto, ma infilandoci la valigia, un paio di rotoli di carta igienica e la “Rolleiflex”, diventava una monoposto (poco male, io tengo alla mia “privacy”),
· saccopelo modello “mummia”, di quelli che uno ci fa la sauna anche se fuori nevica a cappellate,
· sgabello da pescatore tuttora in mio possesso, lo uso come poggiapiedi davanti alla tivvù,
· “Pentola/Filtro” brevettata, originale d’anteguerra, in alluminio e con scolapasta incorporato, molto funzionale, chissà che fine ha fatto,
· fornellino “Camping-Gaz” a butano.
Niente materassino gonfiabile, l’avevo ma era bucato e in più m’avevano fregato la pompetta; non avendo fondi per ricomprare il tutto mi rassegnai a giacere - come san Francesco - sulla nuda terra per venti lunghe notti; vabbè che la “Pinetina” il fondo ce l’aveva ma era come se non esistesse, però il sacco-mummia era molto soffice e protettivo sicché in qualche modo sopravvissi.
Quanto a Mastino e Patata, s’arrangiarono nella sbrindellata “Morettina” di Mastino che, avendo l’abside, poteva, in qualche modo ospitare due persone più qualche bagaglio; in più era pure fornita di sopratelo, accessorio importante visto il clima che trovammo.
L’attrezzatura dei due era completata da due sedie pieghevoli che minacciavano di sbregarsi ogni volta che uno le apriva e da un tavolinetto nuovo, con il piano rivestito in “Formica” che cominciò a scollarsi appena partiti.
La sera prima della partenza Mastino mi telefonò:
“Allora passiamo a prenderti domani sera. Mi raccomando la chitarra.”
“La chitarra? E per che farne?”
“Così le svedesi capiscono subito che siamo italiani e rimorchiamo alla grande.”
“D’accordo.”
Va precisato che possedevo una vetusta chitarra su cui sapevo si e no strimpellare una mezza dozzina d’accordi con cui accompagnare sgangherate canzonacce goliardiche, però avevo e ho una bella voce baritonale molto intonata (modestia a parte).
Alle diciotto del giorno seguente i due compari erano sotto casa mia. Non so come ma riuscimmo a stipare tutta la mercanzia, un po’ nel bagagliaio anteriore e un po’ nell’abitacolo, al posto del quarto passeggero; la chitarra fu appoggiata, in equilibrio instabile, sulla cappelliera; se stava dritta, attraverso il lunotto non si vedeva un piffero ma tanto si rovesciava sempre sulla capoccia del passeggero posteriore (Patata o il sottoscritto secondo i turni; infatti Mastino guidò per tutto il viaggio).
Debbo aggiungere che facevano parte della mercanzia anche nove bottiglie di vino rosso pregiato, più due taniche da 20 litri che riempimmo d’ottimo Cabernet sfuso, acquistato più tardi in una bettola della Valsugana nota a pochi aficionados.
Talvolta mi capita di pensare che, se oggi vedessero tre tizi combinati com’eravamo noi, gli sbirri ci fermerebbero per accertamenti, ma all’epoca - tra i giovani di buona famiglia - faceva molto trendy viaggiare combinati da pellegrini... E poi noi avevamo una Simca 1000 metallizzata, mica una Fiat 500 color pantegana o una Citroën 2 CV grigia come la maggioranza dei predetti giovani; vuoi mettere la differenza!
Così, alle 18 e 20 partii assieme ai compari e circa 100.000 lirette in saccoccia = 50 € d’oggigiorno; pare impossibile? Eppure, dopo circa 20 giorni e 7000 km percorsi, avanzai persino qualche spicciolo.

PRIMA TAPPA
Imboccammo la ss “Valsugana”.
Da Padova a Trento erano 120 km di budello tortuoso che attraversava un’infinità di paesi e con frequenti saliscendi ma poco male perché allora i TIR erano mosche bianche e il traffico prevalentemente in direzione sud, infatti tale via è e rimane la più diretta dal Brennero verso le spiaggione veneto-friulane; oltretutto, a quei tempi, il Nordest non era ancora “mitico”: niente capannoni, né pizzerie, né discoteche e via dicendo, per cui il traffico locale notturno era assai contenuto. Attualmente la situazione infrastrutturale è migliorata, ma da Padova a Carpanè la vecchia 47 è rimasta una fetecchia di strada, il tutto aggravato dal traffico, aumentato a dismisura.
“Dove pensi di fermarti?” chiese Patata a Mastino dopo un po’.
“Intanto tiriamo avanti, poi si vedrà. Se avete sonno dormite pure, se vi scappa cercate di tenere duro ma soprattutto non rompetemi le palle.” rispose Mastino, evidentemente intenzionato a battere il suo record personale di resistenza alla guida.
Breve fermata poco oltre Bassano - causa pieno di Cabernet - e su fino a Trento; poi Mastino accese il “Voxon” a tutto volume per tenersi sveglio mentre io e Patata tentavamo di dormire.
A Trento l’“Autobrennero” rimaneva ancora tra i sogni nel cassetto, quindi imboccammo la vecchia “Abetone-Brennero”: Bolzano, Vipiteno, confine I-A, Innsbruck, ri-confine A-D, sempre su strada statale con traffico scorrevole nella nostra direzione e asfittico in direzione contraria (Tra i crucchi il turismo di massa, magari a bordo d’una “Isetta”, era già imponente), e da ultimo Rosenheim dove potemmo finalmente entrare in una delle leggendarie “Autobahnen” tedesche!
Secondo gli attuali standard non erano poi granché: due sole corsie per senso di marcia, niente corsia d’emergenza ma solo una banchina laterale, spartitraffico striminzito e privo di guardrail, manto stradale in lastre di calcestruzzo risalente ai tempi di Hitler, motivo per cui le indispensabili giunture tra lastra e latra sottoponevano le sospensioni a un assillante martellamento.
Però le corsie erano separate (In Italia solamente l’“Autosole” era tutta a corsie separate, le altre sedicenti “autostrade” erano prevalentemente a corsia unica e con incroci a raso!), i w.c. degli autogrill puliti 24 ore su 24 - c’era addirittura il distributore di profilattici, un marchingegno inconcepibile nell’Italietta d’allora - la segnaletica efficiente, la rete già molto estesa, le colonnine di soccorso frequenti, ma soprattutto le “Autobahnen” erano gratuite, e lo sono tuttora!
La notte germanica era calda e opprimente però Mastino resisteva alla grande: avanti... avanti... Monaco, Stoccarda... tutun... tutun... tutun... Fottutissime giunture, finisce che mi scoppia una gomma!... Karlsruhe... Finalmente un albore rosaceo cominciò a tingere l’orizzonte verso est... tutun... tutun... Mannheim... tutun... tutun... Brevi soste per il pieno (Ehi, Avete visto quanto poco costa? Governo ladro!) e per espletare le funzioni fisiologiche (Aaah, ancora cinque chilometri e mi smerdavo fino al collo)... tutun... tutun... Magonza e finalmente Colonia, dove arrivammo all’una del pomeriggio.
Qui Mastino disse:
“Adesso me le sono proprio rotte.” e si mise a cercare un campeggio.

A COLONIA
Il campeggio c’era ma, almeno a giudicare dai cessi, doveva trattarsi d’un “Konzentrationslager” mai completato causa sconfitta del Terzo Reich e riciclato come struttura turistica, oltretutto a Colonia faceva un caldo asfissiante ma eravamo sfiniti e non ce ne poteva fregare di meno.
In cinque minuti piantammo le tende e mangiammo.
Menu del giorno:
· Ravioli in scatola alla bolognese, prelevati dalla piccola “cambusa” comune, serviti a temperatura ambiente e mangiati direttamente dalla scatola: un’orrida poltiglia color diarrea e speziata all’inverosimile nel vano tentativo di coprire il fetore dei conservanti (N.B. Erano prodotti da una nota industria alimentare ma si rivelarono un clamoroso flop... e te credo!).
· Bottiglie assortite di corposo vino rosso caldo come la pipì, ad alta gradazione, fortemente strutturato e con retrogusto tannico: l’ideale per un clima come quello.
Quindi ci mettemmo in costume da bagno, sciorinammo i sacchipelo sull’erba e ci buttammo a ronfare con il sole che picchiava spietatamente sui crani. Dopo tre ore mi destai in preda a un lancinante bruciore di stomaco e con la testa che scoppiava.
Terapia anti bruciore: cucchiaione di bicarbonato sciolto in acqua... Ruuutt... Aaah! Fatto.
Terapia anti emicrania: due aspirine, dieci minuti con la capoccia sotto il rubinetto... Aaah! Fatto.
Stessa terapia per i compari: dopo mezz’ora eravamo vispi come furetti e pronti a visitare la metropoli renana.
Meta d’obbligo il famoso duomo gotico dalle imponenti torri, miracolosamente scampato ai bombardamenti. All’uscita Mastino (autonominatosi capo spedizione) si guardò attorno e osservò:
“Qua è ancora tutto bombardato, mi sa che non ci sia più niente da vedere. Che vogliamo fare?”
In realtà, nonostante le ancor numerose tracce di distruzione, a Colonia c’era ben altro da vedere ma non lo sapevamo e non avevamo manco uno straccio di guida, per cui proposi:
“Perché non chiamiamo il Frìttola?”
Nota a margine: il “Frìttola” era un comune amico che, alcuni giorni prima, era venuto a Colonia per seguire un corso estivo di tedesco.
Mastino, che conosce la lingua, lo cercò via telefono (‘Sto maledetto crucco non capisce un beato cazzo!) e, dopo avere sbraitato a lungo con uno della famiglia di cui il Frìttola era ospite, riuscì a contattarlo. C’incontrammo pertanto con il compare e, non appena seppe che avevamo una discreta scorta di vino, s’offrì di riaccompagnarci in camping; dopo che ci fummo salutati, la scorta aveva subito un vistoso calo giustificato dal fatto che all’epoca il vino tedesco era una troiata (lo è tuttora), costava un frego di soldi e il Frìttola non era certo astemio (e non lo è tuttora).
Prima d’andare a dormire commisi un grosso sbaglio: scrissi e spedii una lettera a una “pen-friend” di Flensburg (cittadina alla frontiera tedesco-danese) ma, a questo punto, è necessaria una spiegazione.
All’epoca era usanza comune tra i giovani iscriversi a un “Pen-friend Club”. Si trattava di questo: dietro pagamento d’una modesta somma e previa spedizione d’alcuni dati personali, indirizzo e foto, si finiva su un bollettino spedito periodicamente agli iscritti, i quali potevano così corrispondere reciprocamente a mezzo posta: in sostanza i “Pen-friend Club” furono gli antenati delle chat e la cosa funzionava perché le poste funzionavano.
V’era chi s’iscriveva senza secondi fini - per collezionare francobolli esteri o per migliorare la pratica delle lingue - ma i più s’iscrivevano per cercare qualche partner farneticando circa avventure estremamente improbabili.
Io e Mastino eravamo iscritti a un “Pen-friend Club” e la pulzella di Flensburg era appunto una della mie corrispondenti, per cui, visto che Flensburg poteva essere inserita nell’itinerario e che la lettera sarebbe arrivata a destinazione prima di noi, le scrissi che avrei gradito incontrarla di persona e se, magari, non avesse per caso qualche amica con cui andare tutti assieme a fare quattro salti... una passeggiata... Insomma i soliti cazzeggiamenti.
Fine della spiegazione.
Ma perché scrivere alla “pen-friend” di Flensburg fu uno sbaglio? Leggete più oltre e saprete...
Mastino è sempre stato un gran lavoratore ma, quando andava in vacanza, non ne voleva sapere d’alzarsi prima delle 11. Per questo l’indomani alle 10 fui bruscamente destato da Patata che strillava:
“Finocchio pelandrone! Hai deciso di piantare radici in questo cesso di campeggio? Io mi sono già lavato, mi sono rasato, ho urinato e defecato, ho preparato il caffè e tu ancora dormi? Sveglia, cazzone!”
Dopo dieci minuti di strepiti udii Mastino biascicare:
“Calma stronzo! Adesso mi alzo... E piantala di prendermi a cazzotti le palle!”
Fortunatamente Mastino era avvolto nel saccopelo, altrimenti i suoi “gioielli” avrebbero veramente corso gravi rischi; comunque alla fine uscì dalla “Morettina” scaccolandosi e accendendo la prima delle 40 sigarette giornaliere che fuma tuttora, per cui potemmo tenere consiglio onde programmare la giornata.
“Stasera arriviamo ad Amburgo.” decretò Mastino.
“Perché proprio ad Amburgo?” domandò Patata.
“Perché ad Amburgo ci sono certi localini in cui fanno certi spettacolini e io voglio vederne almeno uno. Obiezioni?”
Ovviamente no.

AD AMBURGO
Sul far della sera eravamo nella metropoli anseatica; colà trovammo alloggio in una pensioncina per “Gastarbeiter” gestita da una vecchia decrepita e sita all’ottavo piano d’un palazzone prospettante una strada trafficatissima e rumorosa e, siccome anche lì faceva un caldo bestiale, fummo costretti a tenere le finestre spalancate.
Ma le lusinghe della notte amburghese ci attendevano...
Uscimmo quindi in giacca e cravatta con destinazione “quartieri del vizio”. Dapprima visitammo la famosa strada delle ragazze in vetrina ma, più che di puttanieri, la strada pullulava di turisti nipponici che - famiglia al seguito - fotografavano a rotta di collo.
Successivamente sbucammo sulla celebre “Reeperbahn” dove i summenzionati localini non mancavano; peccato che attorno ai relativi ingressi ronzassero nugoli di ceffi poco rassicuranti, oltre che di femmine piuttosto disinibite. Noi tre - studentelli d’una piccola città della profonda e bigotta provincia veneta - provammo quasi un senso di smarrimento; stavamo per rinunciare quando un “buttadentro” dall’accento meneghino ci apostrofò:
“Uèi voi! Italiani, vero ragazzi? T’el chì l’ambient’ che fa per voi... Dai, entrate, vi vedete qualche bel numerino, vi bevete una birrètta, vi divertite e spendete no una cifra.”
Il buttadentro era un tipo gioviale per cui aderimmo al suo invito, ci sistemammo in un separé, ordinammo le birre e ci accingemmo a vedere il “floor-show” (allora si chiamava così).
Mentre una spilungona sexy come un traliccio ENEL eseguiva un desolante numero di “strip”, Mastino disse:
“Speriamo che il prossimo numero sia meglio... Uh!... Dove diavolo s’e cacciato quel mona di Patata?”
Senza che né io né Mastino ce n’avvedessimo, quel mona di Patata era stato adescato da una formosa entraineuse e trascinato in un separé adiacente, ma il fatto più allarmante era la presenza, sul suo tavolo, d’una bottiglia già stappata di spumante a base di polverine!
“Brutta razza di maniaco!” esclamò Mastino “Che ci fai con quella troia?”
“Lasciami perdere!” rispose Patata “Ho già le mani nella gnocca.”
“E la bottiglia?”
“Quale bottiglia?”
“Quella lì davanti a te, idiota!”
“Porca la...” disse Patata sbiancando “Ma io mica l’ho ordinata... Adesso ci spennano!”
“No, caso mai adesso TI spennano... Beh, niente paura. Tu pensa a sbolognare la mignotta che al resto penso io.”
A questo punto va puntualizzato che Mastino era un marcantonio alto e robusto - già campione regionale di nuoto - simpatico e disponibile ma anche un po’ arrogante e incazzoso, disposto a menare le mani se necessario e soprattutto assai poco propenso a lasciarsi infinocchiare. Meriterebbe un encomio per la grinta mostrata nella circostanza.
Andò dal buttadentro milanese, lo prese per il bavero e ringhiò:
“Adesso và dal tuo capo e dì a quel ladro che, se non si riprende la sua bottiglia di merda, gliel’infiliamo dove sai e poi piantiamo un casino... Mővet’ baüscia!”
Lo sventurato, tremando come una foglia, confabulò con un ceffo stile Ucciardone il quale, vedendo Mastino sfilarsi la giacca e sbottonare i polsini della camicia, borbottò qualcosa e assentì, sia pure di malavoglia.
Il buttadentro, sempre tremando, tornò da noi e disse quasi implorante:
“Va tutto bene ragazzi, tutto bene, ma adess’ l’è mej che ve ne andate... Date retta a me, főra di ball’, nel vostro interesse.”
“Bah,” commentai appena uscito “meglio così: lo show era una vaccata e ci siamo fatti tre birrazze a sbafo.”
“Io che conosco il tedesco” aggiunse Mastino “ho capito cos’ha detto quel gran bastardo del padrone al suo paraculo: ha detto che avremmo meritato una lezione di quelle che dice lui.”
“Allora” intervenne Patata “abbiamo rischiato di brutto... Brava persona quel milanese, in fondo.”
“Taci mona, tutta colpa tua. Quando imparerai a non andar via di testa ogni volta che tira aria di gnocca?” concluse Mastino.
E la nostra “notte brava” amburghese finì lì.
Tornammo alla pensione e, come penitenza, a Patata fu assegnato il terzo letto, del tipo a scomparsa; quando lo estrasse dal relativo cassone, Patata provocò un mezzo disastro per cui dovette dormire su uno scendiletto non senza aver prima recitato un rosario di moccoli.

UM DRAMMA A FLENSBURG
L’indomani raggiungemmo Flensburg e, una volta piantate le tende, ci recammo alla stazione ferroviaria dove avevo fissato l’appuntamento con la “pen-friend”, sedemmo a un tavolo del buffet, ordinammo le solite birre e restammo in fiduciosa attesa.
Dopo qualche minuto vedemmo entrare una biondina allampanata ed espressiva come un merluzzo bollito.
“Boia!” pensai “In fotografia sembrava molto meglio.”
Non solo non aveva portato uno straccio d’amica ma s’era tirata dietro un biondino allampanato ed espressivo come un merluzzo bollito che presentò come suo moroso!
In quel momento non capii più un piffero: se la merluzza aveva qualche timore - tipo essere stuprata nel buffet della stazione da tre abietti giovinastri italiani - poteva darmi buca, ma che, oltre a essere una fetecchia, osasse presentarsi all’appuntamento assieme al fidanzato merluzzo lo ritenni un tradimento.
All’epoca ero piuttosto permaloso e, anche se tentai di non darlo a vedere, m’incavolai di brutto; salutai i due merluzzi con qualche frase di circostanza in inglese, li presentai ai due compari e poi, silenzioso, umiliato e offeso, mi misi da parte fumando nervosamente fetidi sigari locali, trincando come una spugna birra alternata ad anice secco locale e lasciando che fossero Mastino e Patata a intrattenere i due merluzzi.
In tutta la vicenda ciò che più m’indignò fu proprio l’atteggiamento dei due ribaldi che ritenevo amici, i quali un po’ conversavano con gli sgraditi ospiti, un po’ sghignazzavano e mi sfottevano senza misericordia. Col senno di poi ammetto che in fondo non avevano tutti i torti ma aggiungere beffa volontaria a beffa involontaria esasperò il mio stato d’animo.
Avrebbero potuto dirmi, che so:
“Non prendertela, ma hai visto che cauterio? Meglio perderla che trovarla.”
Oppure:
“Via, si sa che ‘sti mangiapatate sono una razza diversa, non la pensano come noi.”
O qualche altra frase consolatoria.
Macché! Lì a fumare, bere e sghignazzare... Giuro di non avere mai più subìto una simile umiliazione!
Quando, sempre troppo tardi, la coppia di merluzzi si fu congedata, sbottai:
“Sentitemi bene, brutti froci! Visto che siamo in stazione adesso vado in biglietteria a comprare un biglietto per l’Italia. Vi chiedo solo una cortesia: quanto rientrate da ‘sto viaggio di merda riportatemi le mie cose, poi potete pure andarvene affan...”
Solo allora i due ribaldi si resero conto d’avere esagerato e mi chiesero scusa; siccome avevo il difetto d’incazzarmi facilmente ma la virtù di disincazzarmi altrettanto facilmente, li perdonai e troncai la polemica concludendo:
“Purché di questa faccenda non si parli più, intesi?”
La mattina successiva, placatasi la buriana, decidemmo di concederci un giorno di relax, dato che il camping di Flensburg si trovava sulla sponda del Mar Baltico il quale, non so altrove, ma lì si presenta come una megapozzanghera a bassissima salinità, gelida, torbida e zozza. Tuttavia eravamo giovani e forti e volevamo tentare un’impresa da raccontare ad amici e discendenti, per cui osammo l’inosabile: ci facemmo il bagno!
Dopo trenta secondi ci accorgemmo che la megapozzanghera - oltre che gelida, torbida e zozza - era pure infestata da enormi meduse per cui schizzammo fuori dall’acqua a gambe levate. Anche non ci fossero state le meduse, non è che avremmo resistito molto di più: in fondo i ripugnanti invertebrati ci evitarono una broncopolmonite. Comunque l’anice secco locale si rivelò molto efficace per sedare i postumi dell’impresa.
L’indomani varcammo la frontiera D-DK: eravamo finalmente nell’anticamera della favolosa Scandinavia!

UNA RIFLESSIONE
Preciso che qui parlo della situazione nel 1965 e che non sono più tornato da quelle parti per cui ignoro se la situazione sia cambiata, ma dopo pochi chilometri in Danimarca avvertii una strana atmosfera: non so se rendo l’idea, ma mi parve d’essere giunto in una terra in cui chi aveva la fortuna di viverci era considerato “cittadino” e non “suddito”, una terra in cui si poteva constatare che il termine “buongoverno” non è un’astrazione socio-filosofica ma una realtà concreta, pur con qualche inevitabile “smagliatura” perché a questo mondo nulla è perfetto.
Una curiosità. La Danimarca era un vero paradiso per i possessori di “veterane”, o catorci che dir si voglia: pur essendoci allora un rapporto vetture/cittadini molto più favorevole che in Italia, circolavano addirittura vetture d’anteguerra, tipo “Balilla” tanto per intenderci. Dello strano fenomeno mi fu fornita una motivazione molto semplice: importazione (tutte le vetture erano importate), immatricolazione e circolazione erano soggette ad altissime imposte.
In sostanza il governo danese diceva ai cittadini:
“Se vuoi comprare una macchina sono cavoli amari, se poi la vuoi cambiare a ogni pipì di cane sono cavoli ancor più amari. Io spremo la tua auto come un limone ma in cambio ti prometto una cosa: i tuoi soldi serviranno per costruire case popolari dignitose in quartieri dignitosi, per fornirti istruzione e sanità a basso prezzo e ad alto livello, trasporti pubblici capillari, puliti ed efficienti, nidi e asili per accudire i tuoi figli senza che tu debba rinunciare al lavoro, indennità dignitose se perdi il posto, assistenza agli handicappati, perfino carburanti a buon mercato, eccetera. Ti assicuro inoltre una buona pensione in quanto farò l’impossibile per impedire a certi politicanti di mettere le loro sudice zampe sui soldi che tu verserai per garantirti una serena vecchiaia. Infine avrai a tua disposizione istituzioni economiche e funzionanti e, anche se qui c’è un re, la monarchia ti costerà assai meno di certe repubbliche delle banane”.
Promesse in larga parte mantenute e lo stesso dicasi per la vicina Svezia (meno esosa, però, nel tassare le auto). Per completezza d’informazione si deve sapere che – all’inizio del secolo XX – i paesi nordici erano tutt’altro che ricchi, erano terre di migranti, come dimostrano i numerosi cognomi scandinavi presenti in America e in Germania, quindi nessuno venga a dire: “Bella forza, quelli sono paesi ricchi da sempre”.
Nel nostro paese invece si decise altrimenti, e i risultati sono sotto i nostri occhi, solo certi signorotti che contano fingono di non aver occhi per vedere... Ma non buttiamola in politica: non è questa la sede.
Piuttosto torniamo a noi.
Bruno, un ex marò danese conosciuto in camping ci consigliò un traghetto gestito dalla JKL (vedasi su Internet) ubicato a poca distanza dalla frontiera; la traversata era un po’ lunga (2 ore e mezzo) ma in compenso ti scaricava direttamente sull’isola di Sjǽlland dove c’è la capitale: poca coda all’imbarco, nave ottima, prezzo conveniente, mare calmo, sbarco veloce al porto di Kalundborg e da lì a Copenhagen in un’oretta circa.

A COPENHAGEN
La città è molto vivace e piacevole, con i suoi canali, le sue case tipiche, i suoi locali, i suoi abitanti (discreti ma cortesi e spesso moderatamente anticonformisti, almeno ai nostri occhi di provinciali italioti) però va detto che chi, come me, avesse già visto Amsterdam, resterebbe forse un po’ deluso: a mio avviso la metropoli olandese rimane la più bella tra le capitali nordiche.
Quanto all’aspetto che più c’interessava, vedemmo parecchie belle ragazze, bionde, slanciate e dall’atteggiamento socievole, ma nulla di particolarmente eclatante.
“Stasera facciamo un giretto e vediamo meglio. Intanto sistemiamoci.” decretò Mastino un bel momento.
“Proprio adesso? Scordatelo!” ribatté Patata “Guarda lì avanti che pezzo di gnocca! Metti la prima, così la seguiamo pian pianino e poi vediamo d’agganciarla.”
“Però cammina in un modo che...” obiettò Mastino.
“Fà come ti dico, pirla, e subito!”
Poco davanti a noi, nella nostra stessa direzione, sul marciapiede procedeva a lunghe falcate una creatura alta e snella con una splendida criniera bionda e ondulata che le scendeva fino a metà schiena. Indossava un completo giacca-pantalone nero molto chic, un genere di capo che anche in Italia cominciava a prender piede tra le donne.
“Avanti piano... così. Sempre più piano... Dev’essere una modella...” disse Patata abbassando il vetro dalla parte del marciapiede “Adesso superala che l’aggancio.”
Ma Patata non agganciò un piffero perché, appena superato il presunto “pezzo di gnocca”, notammo che ostentava un paio di baffi e una barba lunghi e biondissimi!
Patata sbottò in una lunga ed elaborata bestemmia condita da improperi contro certi non meglio identificati “culattoni”, mentre Mastino ghignò:
“E poi il pirla sarei io... Lo dico sempre: sei uno squilibrato. Adesso hai addirittura le visioni.”
A quel punto mi sentii in dovere di prendere le difese del povero Patata.
“Beh, diciamolo:” commentai “visto da dietro sembrava proprio un gran pezzo di gnocca.”
La verità è che non eravamo avvezzi a certi soggetti perché in Italia, all’epoca, i cosiddetti “capelloni” - specialmente in una società chiusa e retriva come quella in cui vivevamo - erano rarissimi e fortemente invisi ai benpensanti, per cui l’equivoco di Patata era giustificabile. Aggiungo che lo spiacevole episodio si ripeté ancora un paio di volte ma poi imparammo a distinguere la differenza già da lontano.
Mastino chiuse l’incidente con la sua tipica prosopopea:
“Io l’ho capito subito che qualcosa non funzionava; adesso tutti in campeggio e basta cazzate, per quelle c’è tempo.”
Il campeggio di Copenhagen era un vasto rettangolo erboso, leggermente ondulato e senza manco un albero, ubicato in un quartiere di periferia anonimo ma ben tenuto. Pullulava di gente come un lazzaretto ai tempi della peste ma un francobollo di terra lo trovammo ugualmente.
Piantate le tende, mi guardai attorno e fui colpito da uno spettacolo inatteso: la maggior parte degli appestati... pardon, degli ospiti erano giovani italiani - ma non solo - giunti lì con i mezzi più disparati: in prevalenza macchine più o meno efficienti, ma anche furgoni VW in stato terminale, moto rappezzate, scooter scassati; i più temerari avevano viaggiato in “Willier” da corsa stracarica di roba, in autostop o con i mezzi pubblici (non con l’aereo: all’epoca costava troppo). Due catanzaresi erano arrivati dopo un’interminabile odissea superata grazie ad autostop, treni, traghetti e autobus; dormivano entrambi in una “Pinetina” come la mia e ci riuscivano solo perché erano piuttosto minuti e le loro masserizie erano sparse tutt’attorno.
In conclusione quei coetanei erano tutti di sesso maschile! Lo si poteva quasi definire un fenomeno migratorio “monosex”.
A quel punto dissi a Mastino con tono sarcastico:
“Davvero una bella idea quella di venire qua in capo al mondo a caccia di gnocca. Altro che ravanare! Prevedo una concorrenza spietata: così, a occhio, per ogni gnocca libera, maggiorenne e che non sia proprio un rutto ci saranno almeno trenta mandrilli arrapati come Patata che se la contendono.”
Patata saltò su.
“Ehi tu, merdone, chi sarebbe il mandrillo arrapato? Bada che ti rovino... Però è vero: prevedo poca trippa per gatti, senza contare che certe facce farebbero scappare le baldracche di Amburgo.”
“Deficienti!” ci redarguì Mastino “Copenhagen fa quasi un milione d’abitanti, volete che non troviamo da divertirci? E poi, se qua ci va buca, resta sempre la Svezia.”
“Perché, cosa pensi di trovare in Svezia?” chiesi scettico.
“Te l’ho detto: da ravanare.”
“Daje! E tu come lo sai?”
“Lo sanno tutti tranne voi due ignoranti e poi è così perché... perché lo dico io e basta con il disfattismo!”
Certe volte Mastino è proprio indisponente.
La sera passeggiammo per la città e ci recammo per un paio di “Tuborg” in un “bistrot” simil-parigino pieno di gente dall’aria intellettualoide.
Quando fummo riconosciuti come italiani, un tizio con occhialini e barbetta da esistenzialista dichiarò d’essere un grande conoscitore della narrativa italiana; quando gli domandai quali fossero le sue competenze in materia mi rispose: “Don Camillo”...
Intendiamoci: per me Guareschi è uno dei più grandi umoristi nostrani e “Don Camillo” un capolavoro del genere, ma che, tra i tanti libri italiani, uno conoscesse solo quello e pretendesse d’atteggiarsi a esperto della nostra letteratura mi fece sorgere il dubbio di trovarmi di fronte al solito intellettuale da strapazzo, megalomane e pieno di cacca.
Tuttavia rimasi ancor più perplesso - e contrariato - quando tirammo fuori le sigarette (in Germania, profittando del modico prezzo, avevamo comprato alcuni preziosi pacchetti di “Rothman’s” e di “Peer Export”) e fummo assaliti da un nugolo d’avventori dall’aria squattrinata che scroccarono sigarette senza ritegno. Uno ci spiegò che le sigarette in Danimarca erano super tassate: col senno di poi la ritengo una tassazione giusta ma allora mi sentii letteralmente depredato.
A un certo punto Mastino decretò:
“Qua, gente, non si batte chiodo, in compenso ‘sti parassiti si fumano le nostre misere risorse. Meglio andare a nanna. Oltretutto sta per piovere e la pioggia non è l’ideale per rimorchiare.”
Un cupo brontolio preannunciava infatti la fine del bel tempo che aveva sino ad allora accompagnato la nostra avventura. Quando arrivammo al campeggio già pioveva a secchiate e il temporale durò tutta la notte; tuttavia, la mattina dopo, un bel sole caldo illuminava uno spettacolo desolante: il terreno era ridotto a una palude in cui gli alluvionati... pardon, gli ospiti s’aggiravano smarriti cercando d’asciugare le masserizie, soprattutto i due catanzaresi.
Noi tre fummo fortunati: nonostante ci trovassimo circondati da uno strato di fanghiglia alto una spanna, le nostre tende erano quasi indenni. Mastino s’alzò praticamente a mezzogiorno - e solo dopo numerose contumelie da parte di Patata - quando ormai il terreno era drenato e il sole picchiava: il dormiglione trovò già pronta un’enorme spaghettata condita con un vasetto di pomodoro “Star” (materia prima prelevata dalla “cambusa” comune). Peccato non ci fosse parmigiano ma, all’epoca, i frigo portatili non esistevano ancora per cui non avevamo generi deperibili. L’immancabile sequenza d’“ombre” rosse innaffiò il pasto monopiatto.
Intanto il cielo aveva ripreso a rannuvolarsi.
“Che si fa?” chiese Patata.
“Un po’ di siesta e poi andiamo in centro.” decretò Mastino.
“Siesta? Hai ancora sonno? Chi dorme non piglia pesci.”
“Voi due fate pure il cazzo che volete, io torno a dormire... e non mettetevi idee in testa, tanto la Simca non ve la presto.”
“Il solito egoista!” ringhiò Patata.
Verso le quindici, quando Mastino si degnò di svegliarsi, ci recammo in centro sotto una pioggerella gelida e ostinata. Visto che il clima non assecondava le nostre ricerche decidemmo di riparare nella “Carlsberg Gypsothek” – un po’ di turismo culturale ci voleva, tanto per non sentirci dei fissati - che poi non era una gipsoteca ma un museo vero e proprio, piuttosto pregevole e soprattutto “a dimensione umana”, ma qui mi sia consentito un chiarimento.
Personalmente trovo asfissianti i “musei-monstre” dove trovi di tutto e di più, da cui esci distrutto dopo avere percorso chilometri e tanto stufo da convincerti che, in fondo gli antichi egizi scolpirono statue tutte uguali, Raffaello non era altro che un imbianchino e Canova una scalpellino. Contengono - è vero - tesori incomparabili ma sono dispersi in mezzo a tanta di quella roba che, alla fine, una persona normale come me viene assalita da un senso di nausea. In particolare trovo micidiali le sale - spesso numerose - che ospitano certi “lenzuoloni” di Pietro Paolo Rubens (pittore fiammingo del 600): poiché non è possibile che a un solo uomo sia bastata un’intera vita per dipingere tanta mercanzia, penso si tratti di lavori elaborati dalla sua bottega, la quale doveva essere una sorta di “General Motors” della pittura secentesca, che sfornò quantità industriali d’enormi e inguardabili dipinti.
Per visitare la “Carlsberg Gypsothek” con una certa attenzione impiegammo tre ore scarse, vedemmo parecchie opere notevoli e ci riparammo dalla pioggia: una rilassante parentesi culturale, in definitiva.
All’uscita, fermi sul marciapiedi, stavamo decidendo circa il da farsi quando una Fiat 1100 bianca con targa della nostra città c’indirizzò una strombazzata. S’immagini la nostra sorpresa quando vedemmo che si trattava di “Ciccio”, un compagno d’università che infilava trenta e lode uno dietro l’altro, ma che, quanto al resto, era ritenuto da molti un perfetto imbranato.
Ciccio scese dalla 1100 bestemmiando come un turco e, dopo i saluti di rito, ci espose la sua triste vicenda.
In sostanza era accaduto questo: due suoi compari, un mese prima, al mare, avevano conosciuto due ragazze di Copenhagen che li avevano invitati a trascorrere qualche giorno nella loro città; il guaio era che i due compari non avevano un automezzo, mentre lui aveva la 1100. Tanto avevano brigato e tanto avevano promesso (Roba tipo: “Suvvia Ciccio, che ti costa darci uno strappo? Non c’è problema: figurati se quelle due non hanno qualche amica. Pensiamo noi a trovarti compagnia” e via dicendo) che Ciccio aveva acconsentito. Una volta giunti a Copenhagen i due infami s’erano insediati a casa delle due ragazze e avevano scaricato il meschino da un affittacamere lasciandolo con un palmo di naso.
“Quei mascalzoni... Quelle carogne... Quei figli di troia!” sbraitava come un ossesso “Da tre giorni giro come un mona per ‘sta dannata città perché non so cosa fare!... Ah, ma so ben io come sistemare quei due: adesso prendo su e me ne torno in Italia da solo... Io li distruggo... Io m’incazzo! Proprio così, io m’incazzo!”
Ciccio rifiutò quindi il nostro invito a consolarsi con una birra in nostra compagnia, risalì bestemmiando a bordo della 1100 e riprese il suo vagabondare.
Non seppi mai come andò a finire ma dubito che i due scellerati mantenessero le promesse; dubito peraltro che Ciccio li abbia piantati in asso, per due motivi: in fondo Ciccio sperava che finalmente un’amica delle due danesi saltasse fuori e poi era noto come soggetto alquanto parsimonioso, di conseguenza la sola idea di non spartire il costo della benzina per il ritorno in patria lo sgomentava.
“Qua continua a piovere per cui sono rotto. Domani vediamo se in Svezia il tempo migliora.” decretò Mastino.
Concludemmo la piovosa serata in una “Cafeteria” ingollando “smörrenbröd” (= pane e burro), tipiche tartine danesi ad alto tenore di colesterolo e guarnite con i più svariati ingredienti: si trattava d’una delle poche specialità locali commestibili, a patto di controllare la guarnizione onde evitare il rischio di scegliere aringhe crude su marmellata di lamponi o paté di fegato di merluzzo.
In proposito, illustrare la cucina scandinava dell’epoca richiederebbe un disgustoso memoriale a parte; per questo motivo, e per evitare conati di vomito a chi legge, credo sia meglio soprassedere... ma temo dovrò tornare ancora sull’argomento.
Poi le solite due o tre birrazze e infine in tenda a beccarci i reumatismi.

L’APPRODO IN SVEZIA
Attualmente il Sund (braccio di mare tra Danimarca e Svezia) è superato da un ponte perché lassù, se un ponte à fattibile, lo fanno in quattro e quattr’otto; non come da noi, dove da decenni si farnetica circa irrealizzabili ponti senza concludere un beato piffero e sperperando denaro pubblico.
Allora il breve braccio di mare (venti minuti di traversata) era superato da piccoli traghetti misti per veicoli su gomma e carri ferroviari, frequentissimi ed economici, i quali univano Elsinore (DK) - dove sorge il castello di Amleto - a Halsingborg (S).
Finalmente approdammo sul suolo svedese e lì trovammo tre novità sconcertanti, una attesa, l’altra no, la terza quasi.
Quella attesa era che all’epoca in Svezia i veicoli procedevano sul lato sinistro della carreggiata, come in Inghilterra, ma il bravo Mastino - a parte qualche iniziale crisi d’imbranamento sulle rotonde - imparò a cavarsela quasi subito.
Poco dopo gli eventi narrati la Svezia passò alla circolazione sulla corsia destra; anche se la rivoluzione fu facilitata dal fatto che da tempo nel paese circolavano solo vetture con il volante a sinistra, la facilità con cui si svolse l’operazione suscita ancor oggi la mia meraviglia. I responsabili allestirono l’opportuna segnaletica modificata e la tennero coperta fino alla mezzanotte d’un giorno che non ricordo (ma ricordo i telegiornali dell’epoca), quindi in pochi minuti i vecchi segnali vennero disattivati, quelli nuovi attivati e gli automobilisti svedesi si portarono come un sol uomo sulla corsia alla loro destra. Va detto che a mezzanotte, nel paese, la circolazione era limitata ma che la rivoluzione si sia svolta senza incidenti di rilievo a me sembra tuttora incredibile.
Se penso che gli inglesi si tengono e si terranno nei secoli dei secoli la loro dannata guida a sinistra (oltre che la loro svalutata sterlinetta), ritengo che la buonanima del generale De Gaulle non avesse poi torto a volerli fuori dalla CEE, ma questa è un’opinione personale.
La novità inattesa era che già nel 1965 tutte le stazioni di rifornimento svedesi erano a self service, con numerose colonnine e un solo addetto alla cassa nello “shop” annesso alla stazione; la faccenda funzionava così: uno si riforniva, andava nello “shop” dove, se voleva, trovava lubrificanti e altri articoli per l’auto, snack, bibite rigorosamente analcoliche, giornali, souvenir, sigarette (carissime), preservativi, caffè dalla macchinetta, pagava e se ne andava. Con questo sistema bastava un solo addetto a gestire una grossa stazione e, di conseguenza, si potevano abbattere i costi.
Adesso sembra una banalità perché quasi tutti i distributori europei funzionano con questo sistema, tranne in Italia, dove stenta a prendere piede in quanto anche un distributore con due colonnine deve sfamare tre o quattro bocche. Risultato: gli addetti guadagnano una miseria e abbiamo i costi del carburante che sappiamo.
Al primo rifornimento restammo mezz’ora in attesa che qualcuno si degnasse di farci il pieno, poi un cortese automobilista locale ci spiegò a gesti che dovevamo arrangiarci e – con le rituali “eresie” tipicamente venete – provvedemmo, sia pure spandendo all’esterno un paio di litrozzi.
La novità quasi attesa era che i prezzi scandinavi presentavano, rispetto a quelli italiani, una differenza che andava dal 20% al 60% secondo i casi (però alcuni generi costavano meno come, appunto, la benzina): sapevamo qualcosa fin dalla partenza e già in Danimarca avevamo avuto qualche avvisaglia, però in Svezia la “forbice” era più accentuata. D’altronde il potere d’acquisto del cittadino medio svedese era ben più alto rispetto a quello del cittadino medio italiano, quindi per lui la vita era meno cara che in Italia, dove ci si cullava in un “boom” rivelatosi in gran parte illusorio ed effimero, mentre Roma era ancora circondata da borgate fatiscenti popolate da emarginati e nei “Sassi” di Matera convivevano ancora bestie e cristiani.
D’altronde il privilegio d’abitare nel paese più bello del mondo (e dove si mangia e si beve meglio) ha un alto prezzo e noi italiani lo pagavamo, lo paghiamo e lo pagheremo sempre, però non bisogna tirare troppo la corda... Ma questo è un altro discorso.
Ci sarebbe da citare una quarta novità che ignoravamo: in Svezia era già in uso il temutissimo “palloncino”; per pura fortuna la cosa non ci non ci riguardò altrimenti sarebbero stati guai seri.

A LANDSKRONA
Appena sbarcati, Mastino decretò:
“Adesso si va a Landskrona, è a tiro di sputo.”
“Landskrona?” chiese Patata consultando la carta “Perché proprio a Landskrona? Non è neanche sulla strada per Stoccolma.”
“Perché a Landskrona c’è una mia pen-friend.”
“Ancora con ‘sta storia delle pen-friend! Non t’è bastata la figura di merda che ha fatto ‘sto sfigato?” disse Patata indicandomi.
“Piano con le parole!” m’incazzai “Altrimenti risalgo sul traghetto, torno a casa e vi mando affan...”
“Piantatela voi due!” troncò Mastino “Si va a Landskrona perché sta bene a me; se vi va è così, se no fuori dalla mia macchina!”
Appena giunti a Landskrona, Mastino parcheggiò la Simca e decretò:
“Adesso compriamo qualcosa, cerchiamo una cabina per telefonare alla tizia, e poi...”
“E poi?” domandammo io e Patata a una voce.
“Grandi speranze... se non altro per me.”
“Il solito egoista!” disse Patata “Almeno domandale di racimolare un paio d’amiche, possibilmente decenti.”
“Vedrò cosa posso fare per voi pellegrini... Forza, smontare!” ordinò Mastino.
“Andate voi due: io preferisco restare in macchina.” borbottò Patata.
“Come preferisci.” rispose Mastino.
Dopo qualche metro dissi:
“Vedi? L’hai fatto incazzare.”
“Vorrà dire che poi si disincazza... E muoviti!”
Comprammo qualcosa imprecando contro il costo della vita scandinava poi Mastino si chiuse dentro una cabina telefonica, confabulò circa mezz’ora e alla fine uscì con aria pimpante dicendo:
“Certo che il tedesco che parlano qui è un po’ difficile da capire, però è fatta.”
“In che senso?”
“Stasera siamo invitati a cena tutti e tre.”
“A cena? Ci sarà qualche amica per il dopo cena, spero.”
“No, solo lei e i genitori. Non ho ritenuto opportuno chiederle un paio d’amiche per voi due... Capirai, dopo il pasticcio che hai combinato con la tizia di Flensburg...” Tutt’un tratto Mastino s’interruppe “Porca la!... Dove diavolo s’è cacciato quel mona di Patata?”
Eravamo arrivati al parcheggio e la Simca era vuota e abbandonata!
“Guarda qua! Quel disgraziato ha lasciato le porte aperte...” esclamò Mastino con le mani nei capelli “Ah già, mi sono portato dietro le chiavi... Ma cosa combina quello scimunito?... Parla solo francese, pure male, e sarebbe capace di perdersi anche nei cessi pubblici!”
Mastino appariva nel marasma più totale e anch’io mi guardavo attorno sconcertato: in fondo non si trattava d’una gran perdita ma il fatto era comunque increscioso.
In quella un garbato ed elegante gendarme ci s’avvicinò e disse in perfetto inglese.
“Cercate il vostro amico? L’abbiamo portato al comando, dall’altra parte della strada.”
Siccome l’unico che s’arrabattava con l’inglese ero io, chiesi con ansia:
“Al comando? Che reato ha commesso?”
“Nessun reato.” ridacchiò il giovanotto “S’è solo sentito poco bene ed è venuto da noi per cercare aiuto.”
“Che cazzo dice lo sbirro?” chiese Mastino sempre più turbato.
“Dice che Patata è al comando e che...”
“Lo sapevo! Non dovevamo lasciarlo solo! Quello ha allungato le zampe sulla prima che passava... Adesso ci sbattono al fresco tutti e tre! Spero almeno che ci mettano nella stessa cella così lo strangolo.”
“E lasciami finire! Patata s’è solo sentito male e lo stanno assistendo.”
Trovammo Patata sdraiato su un divano e accudito da due graziose poliziotte (Piacevole constatazione: infatti all’epoca le poliziotte italiane non erano state ancora inventate): non sembrava affatto che soffrisse, anzi.
“Ebbene, piattola, che t’ha preso?” chiese Mastino.
“Niente di grave: i miei soliti disturbi del ritmo cardiaco. Però il farmacista non può darmi la specialità se non presento la ricetta firmata da un medico svedese.”
“Quindi?”
“Quindi io e gli sbirri aspettavamo solo voi due per andare all’ospedale.”
Infatti subito dopo Patata venne fatto accomodare su una “Rekord” della gendarmeria e portato all’ospedale con tanto di lampeggiante e sirena, mentre io e Mastino seguivamo a bordo della Simca.
All’ospedale i cortesi agenti si congedarono augurandoci buona fortuna, quindi Patata venne fatto sedere in sedia a rotelle e preso in consegna da un’infermiera che – camice a parte - somigliava ad Anita Ekberg in “La dolce vita”.
“Osteria che gnocca!” rantolò il paziente “E chi guarisce? Una come questa il ritmo cardiaco te lo manda in vacca!”
Con tipico intuito femminile, l’infermiera comprese il significato della battuta e sfoderò un radioso sorriso.
Dopo breve attesa in un’elegante saletta, Patata venne accolto dal cardiologo e trattenuto in ambulatorio un paio d’ore, dopo di che uscì con in mano una cartellina e un campione di farmaco che gli bastò per il resto del viaggio.
Da aspirante medico, Patata non mancò d’apprezzare l’accurato servizio prestatogli: anamnesi, check-up cardiologico, temperatura, pressione, riflessi, peso eccetera. Inutile aggiungere che il cardiologo parlava un francese perfetto.
Terminata la visita, la bella infermiera - quasi scusandosi - disse in inglese:
“Sorry, ma il paziente è straniero e deve pagare il ticket.”
Spesa complessiva: l’equivalente di circa 1000 lirette! Poco anche per l’epoca, un’epoca in cui, in Italia, negli ospedali c’erano ancora le corsie da sessanta posti letto, le suore, i “baroni” con codazzo di dottorini ossequiosi e dove chi aveva i soldi poteva curarsi e chi aveva solo la Cassa Malattie... ciccia!
Una pillola e i disturbi di Patata cessarono in pochi minuti. Risaliti in macchina piantammo le tende al camping di Landskrona, dopo di che Patata disse a Mastino:
“Adesso parliamo di cose serie... Hai contattato la tizia?”
Quando Mastino ebbe esposto il suo resoconto, Patata prese a sghignazzare.
“A cena con mamma e papà! Và avanti tu che a me viene da ridere!”
“Ridi? Si vede che non sai come funzionano le cose qui in Svezia.” ribatté Mastino sdegnoso.
“Perché? Come funzionano le cose qui in Svezia?”
“Funzionano così: dopo cena i genitori si mettono davanti alla televisione e la tizia s’apparta con il moroso.”
Patata si fece cupo.
“S’apparta? Nella camera di lei?”
“E dove se no?”
“E tu come lo sai?” chiese Patata sempre più incupito.
“Lo sanno tutti tranne voi due ignoranti... Uffa! Adesso basta con le domande.”
“Basta un’ostrega! Tu non sei il moroso della tizia.”
“Quanto sei pedante! Vorrà dire che stasera fingerò d’esserlo.”
“E le amiche per noi?”
“Io chiedere alla tizia di trovare due amiche per due scalzacani come voi? Se è uno scherzo non mi fa ridere: mica voglio sputtanarmi in terra straniera, io.”
“E mentre tu sei appartato noi due che facciamo?”
“Non sono capperi miei.”
“Dicci almeno per quanto tempo intendi lavorarti la tizia.”
“Dipende da tante cose.”
“E noi dovremmo stare ad aspettare i tuoi porci comodi?”
“Niente affatto: potete tornare in campeggio a piedi.”
“Cazzo! Sono almeno cinque chilometri!”
“Una passeggiata dopo cena non può farvi che bene... E adesso basta veramente.”
“Tu ci godi a tirare porcate!”
Ci preparammo per la cena e all’ora prefissata (non ricordo, ma forse erano le 18: nei paesi nordici si cena di buon’ora) ci trovavamo davanti alla linda villetta in cui dimorava la “pen-friend” di Mastino.
La fanciulla era meglio di quella incontrata a Flensburg ma non era nemmeno la tipica bellezza svedese vagheggiata dai tamarri: carina e simpatica ma niente di particolare. Non dico di più perché non ne ricordo le fattezze e se non le ricordo significa che non lasciò un ricordo indelebile.
I genitori erano persone distinte e garbate e, in proposito, devo dire che trovammo gli svedesi molto garbati anche se un po’ formali (chissà se è ancora così), eccetto i “raggar”... Chi erano il “raggar”? Leggete più sotto e lo saprete.
Non ricordo nemmeno cosa mangiammo, se non che si trattava di zozzerie frutto della tragica usanza culinaria - tipica delle genti nordiche - di mischiare il dolce con il salato: in quelle terre per molti versi tanto civili era impossibile mangiare qualcosa di decente. Perfino il pane (solo a cassetta e di produzione industriale) era addizionato con zucchero per cui manco potemmo farci qualche panino con il salame (anch’esso di produzione industriale e di qualità infima) o con il formaggio (praticamente si vendevano solo sottilette), ma unicamente con burro e marmellata, due delle poche “perle” della gastronomia nordica.
L’unica pietanza che rammento fu un trancio di cavolfiore semicrudo e senz’ombra di condimento!
Per dovere d’ospitalità dovemmo ingollare quella robaccia innaffiandola con beveroni dolciastri dal gusto ambiguo e lodando le virtù culinarie della padrona di casa.
Terminata la cena, la svedesina annunciò che l’indomani doveva alzarsi presto per via di certi suoi impegni con gli scout (mi pare) e si ritirò salutandoci e raccomandando a Mastino di proseguire la corrispondenza. Poco dopo anche i genitori ci fecero educatamente capire che dovevamo toglierci dai piedi, e meno male, se no io e Patata - a forza di trattenere il riso - ce la saremmo fatta nei pantaloni.
Appena fuori scoccò l’ora della MIA vendetta (in ciò fui appoggiato da Patata che, anche se da sempre suo amicone, mal sopportava l’arroganza del compare) e, per Mastino, l’ora della SUA umiliazione.
“Fammi capire:” ghignai “non dovevi appartarti con la tua bella?”
“E noi” incalzò Patata “Non dovevamo farci una bella scarpinata fino al campeggio... o mi sfugge qualcosa?”
Poi io e Patata a una voce:
“Sceee-mo! Sceee-mo!”
Né io né Patata tenemmo conto del fatto che Mastino aveva il coltello dalla parte del manico (o meglio la Simca dalla parte del volante), ragion per cui, dopo qualche secondo d’impietosi sfottò, esplose:
“Smettetela immediatamente, frocioni, altrimenti la scarpinata ve la fate sul serio!... Adesso non ridete più, eh?” poi, come volesse convincere sé stesso “Bah, in fondo non ho perso granché... E dire che in foto sembrava una gran gnocca... A conti fatti meglio perderla che trovarla.”
Inutile dire che né io né Mastino rinnovammo l’iscrizione al “Pen-Friend Club”, infatti troppe iscritte taroccavano le foto e tiravano bidoni.
L’indomani mattina partimmo completamente rappacificati e sereni come il cielo da cui, nel corso della nottata, erano sparite le nubi
A questo punto qualcuno potrà chiedersi come mai - nonostante scoppiassero baruffe, a due o a tre, almeno venti volte al giorno, nonostante ci lanciassimo continui e sanguinosi insulti spesso riguardanti le rispettive madri o i rispettivi defunti - non fosse volata ancora qualche sberla, e non ne volarono per tutto il viaggio. A tale domanda rispondo che allora era così: non dominavano i rancori, i livori, le ripicche che oggigiorno portano ad assurde e tragiche conclusioni episodi anche banali (e noi vecchi non siamo immuni da simili pazzie). Tali comportamenti erano solo un sistema alternativo - “diversamente cordiale” oso dire - di gestire i rapporti umani... non so se rendo l’idea.
Ma procediamo.

VERSO LA CAPITALE
La strada scelta per avvicinarci alla capitale svedese era la lunga statale che corre parallela alla frastagliatissima costa del Baltico e che, a Norrkőping, si congiunge con l’itinerario più diretto, che invece taglia diagonalmente la Svezia meridionale toccando la zona dei grandi laghi.
L’unica grande città lungo l’itinerario è Malmő, pochi chilometri a sud di Landskrona (non la degnammo d’uno sguardo, andavamo di fretta), quanto al resto solo villaggi e cittadine tutte uguali, tutte pulite e ordinate, tutte inserite in un paesaggio per noi insolito e distensivo ma, alla lunga, monotono: dolci ondulazioni a perdita d’occhio, coperte da foreste di conifere alternate a zone agricole; di quando in quando il Baltico appariva in forma di baie o fiordi a coste basse che s’insinuavano all’interno del territorio; talvolta acque dolci e salmastre si mischiavano in estesi canneti che affiancavano la carreggiata. E fu proprio in una di tali zone paludose che chi scrive rischiò di brutto.
Non so se la causa scatenante fu la fettona di cavolo semicrudo (che però su di me non produsse analoghi effetti) mandata giù durante la cena di Landskrona o se si trattava d’una dote naturale comune ai due scostumati, fatto sta che Mastino e Patata (seduti davanti) si sfidarono in un torneo di peti ad alto potenziale. Quasi stordito dal tanfo provai a mettere il capo fuori dal finestrino ma, con angoscia, constatai che anche all’esterno regnava un’atmosfera altrettanto mefitica: infatti stavamo attraversando una zona paludosa in cui tonnellate di canne morte marcivano in acque morte, e la zona sembrava non finire mai!
Talvolta mi meraviglio d’avere resistito a quel supplizio degno della “Gestapo” e protrattosi più di un’ora. Comunque ce la feci e le foreste di conifere che seguirono alle paludi tonificarono le mie vie respiratorie con il loro aroma di resina... Però fu dura, credetemi!
La statale proseguiva monotona e sconnessa (evidentemente, anche in un paese ricco, gli effetti del duro inverno sull’asfalto non erano del tutto rimediabili) quando Mastino s’accorse che era sera, e se n’accorse solo guardando l’orologio: infatti, a quelle latitudini, d’estate non fa mai buio; non si tratta ancora del “Sole di mezzanotte” - fenomeno visibile a latitudini più elevate - ma comunque d’un chiarore persistente anche a notte inoltrata.
Di campeggi non c’era traccia, però, a un certo punto, vedemmo una freccia che segnalava un ostello. Mastino girò a destra e imboccò una strada a fondo naturale (molto migliore dell’asfalto) che s’inoltrava nella foresta e che, dopo una quindicina di chilometri, giungeva a un’insenatura in riva alla quale sorgeva un villaggio lindo e tranquillo, costituito da poche case, una chiesetta luterana e una scuola elementare; quest’ultima, durante la chiusura estiva, fungeva appunto da ostello (Buona idea; mi domando perché non si faccia lo stesso anche da noi: simili iniziative potrebbero rimpinguare le casse scolastiche).
Responsabile dell’ostello era una ragazzona di tipo un po’ rustico ma tutto sommato piacente, la quale si presentò come insegnante di religione. La cosa ci sconcertò: in Italia le donne insegnanti di religione (munite di benestare vaticano) furono inventate in epoca successiva, ma negli anni 60 l’insegnante di religione era sempre un pretone in tonaca e “tricorno”.
Per quanto riguarda la sistemazione, dopo notti di tenda - spesso funestate da rovesci - ci sembrò degna d’un sultano: edificio nuovo di trinca, camerata grandissima con quattro comode brande, servizi principeschi e pulitissimi, cucina/refettorio attrezzata e a nostra completa disposizione, il tutto per pochi spiccioli!
Scaricammo le masserizie e, dopo un po’, la giovane si rifece viva e c’invitò – omaggio ai primi italiani giunti in quel remoto angolo di Scandinavia – a un “Würstel-Party” sulla riva del mare. All’evento partecipavano i pochi giovani del luogo - i quali sembrarono stupiti nel constatare che non eravamo omini verdi - e la faccenda consisteva in questo: acceso un falò s’infilavano dei würstel in scatola su degli stecchi, s’abbrustolivano al fuoco e si mangiavano.
Nota a margine: una delle poche cose commestibili in Svezia erano gli “hot-dog”, venduti negli appositi chioschi ma solo assieme a “soft drinks”, come nei polizieschi americani; una vera disdetta, in quanto accompagnare un “hot-dog” con aranciata o coca anziché con una buona birrazza non l’ho mai ritenuto un abbinamento felice (quantunque oggigiorno tale barbara usanza sia abituale).
Un bel momento Mastino disse:
“Dai Ciano, tira fuori la chitarra se no non ci credono veri italiani: ‘sti qua non aspettano altro.”
“Ho comprato una moto Morini” e “Osteria numero uno” da me intonati con voce squillante suscitarono solo facce perplesse tra gli astanti, per cui, all’“Osteria numero sei”, (testi reperibili su Internet), Mastino m’interruppe dicendo:
“Ma che cazzo canti? Questi vogliono musica tipica italiana... Tu pensa ad accompagnarmi che al resto penso io.”
Mastino aveva una zia a Roma per cui “Anvedi, ecco Marino, la sagra c’è dell’uva” era nel suo repertorio e ciò lo indusse a esibirsi stonando come una campana e provocando ulteriori perplessità tra gli astanti.
Tutt’un tratto Patata c’interruppe:
“Piantatela cretini! Non vedete che state facendo una figura di merda?”
Saggia decisione, meno saggia la proposta che seguì:
“Piuttosto sono stufo di mangiare salsicce carbonizzate e bere roba tanto dolce da vomitare: perché non mostriamo a ‘sti buzzurri come si fa una bella spaghettata? La cucina ce l’abbiamo... Forza, invitiamoli!”
I ragazzi non se lo fecero dire due volte e gli spaghetti al pomodoro “Star” ottennero uno strepitoso successo, ma ancor più successo - ahinoi! – ottenne il Cabernet della Valsugana:
Un piccoletto (sissignori, i piccoletti ci sono anche in Svezia) si mise in un angolo con espressione cupa e diffidente, quasi a dire:
“Stiamo a vedere che porcata ci rifilano ‘sti terroni.”
Poi ingurgitò tre scodelle di pasta e un litro di Cabernet.
Finito il banchetto e congedati i commensali, Mastino aggredì Patata:
“Che t’è saltato in mente? Pasta e vino sono quasi finiti!”
“Bisognava pur rimediare alla figuraccia che avete fatto con quella stupida chitarra.”
La polemica finì quasi subito in quanto la giovane insegnante rientrò per ringraziarci della spaghettata; con l’occasione non mancò di sorridere a Mastino in un certo qual modo, per cui Patata – capita l’antifona - mi propose d’andar fuori a fumare: con tutti i suoi difetti, Patata sapeva essere molto discreto...
Dopo un po’ Mastino e la ragazza uscirono dall’edificio e si salutarono; quando lei si fu allontanata, la discrezione di Patata svanì come per incanto.
“E allora?” ghignò visibilmente invidioso “Avete ripassato il catechismo luterano?”.
“No, abbiamo fatto una bella ravanata.”
“Una volta per tutte, fammi capire cosa intendi per ravanata.”
“Eeeh...” replicò misterioso Mastino.
“Insomma, te la sei sbattuta?”
“Beh, se devo proprio essere sincero...”
“Almeno i vestiti ve li siete tolti?”
“Uffa, che curioso!”
“Volete sapere una cosa?” intervenni “Io la storia delle svedesi che ci stanno con il primo italiano che passa non l’ho mai bevuta.”
“Allora tu che ci fai qui con noi?” chiese Patata.
“Ecco, io... Ehm... Non volevo perdermi una gran bella gita.”
“Meglio che tu taccia! Sei solo un ipocrita, un bugiardo e pure un po’ stronzo!”
Come al solito Mastino prese il sopravvento.
“Diamoci un taglio!” sbottò “Lei ha detto le solite cazzate, che dovremmo conoscerci meglio... Insomma, ho capito che non era il caso d’insistere, perché sono un signore, io... Un vero signore! Porca puttana troia sfondata!”
“Ehi!” ribatté Patata allarmato “Non è che per caso tu voglia piantare radici in questo buco per approfondire la conoscenza?”
“Mancherebbe anche questa: qua sono dei burini, dei provinciali. A Stoccolma sarà tutt’altra cosa.”
“Se lo dici tu... Adesso scusate: fuori faceva un fresco, ma un fresco...” disse Patata fiondandosi verso i servizi.
“Questa dev’essere zona sismica.” osservai un attimo dopo sentendo i vetri tremare, però sbagliavo: si trattava del cavolo che continuava a lavorarsi le budella di Patata.
Alle dieci del mattino successivo (Mastino fu insolitamente mattiniero) riprendemmo la statale, ben decisi a giungere a Stoccolma in orario tale da consentire un sopralluogo.

A STOCCOLMA
Sul mezzogiorno eravamo finalmente a Stoccolma; ai margini della superstrada che portava verso il centro c’era un campeggio spelacchiato in cui piantammo le tende; notammo con sollievo che unici ospiti italiani erano i componenti una famigliola in 1100 con roulotte “Graziella” al seguito però, dopo un attimo, guardammo meglio e constatammo che, in pratica, si trattava quasi d’un campo nomadi: erano pur sempre nomadi svedesi, cioè puliti, ordinati, educati, dall’aspetto rassicurante, con vetture e caravan ben tenute ma (siccome certi pregiudizi sono duri a morire) andammo alla “Reception” per disdire.
L’addetto ci spiegò che ormai ci aveva registrato e che avremmo dovuto comunque pagare un pernottamento; inoltre ripeté in inglese “Vi dico che non hanno mai dato problemi” ed “È più probabile che i soldi ve li freghino nella metro”, e lo ripeté tante di quelle volte che ci tranquillizzammo; tuttavia il camping rimaneva rumoroso e squalliduccio per cui decidemmo di spostarci l’indomani in ogni caso.
E finalmente potemmo approdare nella “downtown” per una camminata tra Kungsgatan, Sveavägen e vie adiacenti, ossia i quartieri più belli e ben frequentati della metropoli svedese.
Per quanto riguarda il genere femminile nessun dubbio che fossero strade più che ben frequentate: finalmente potevamo ammirare le mitiche valchirie di cui si bisbigliava tra i tamarri da spiaggia, e ce n’erano a battaglioni!
Non è questa la sede per perdersi in dettagli, mi limito a dire che buona parte delle valchirie seguivano il modello Brigitte Bardot fino a sembrarne copie conformi (all’epoca l’attrice francese era un’icona del sex-appeal; documentarsi): in più, oltre che avvenenti, erano agghindate, truccate e pettinate come top-model; allora, nella nostra città, mammiferi del genere si contavano sulle dita d’una mano e non è che anche altrove le cose andassero granché meglio.
Come sopra accennato - vedendo ciò che oggi resta di loro - mi domando se quelle creature non fossero miraggi; oltretutto, ai nostri giorni, sventole simili circolano anche in Italia, da Aosta a Lampedusa, però - nei “favolosi” anni 60 - articoli del genere si potevano ammirare solo in via Veneto ma si trattava d’articoli inavvicinabili, invece le ragazze di Stoccolma erano spontanee, sorridenti, accattivanti e, se uno buttava là un complimento, sovente si fermavano a discorrere... Grande paese la Svezia anni 60!
Il rovescio della medaglia era sempre il solito.
Se le valchirie erano battaglioni, i giovani maschi - provenienti, tanto per dire, da Abbiategrasso, Forlimpopoli, Vetralla o Zafferana Etnea, ma anche da altre aree latino/mediterranee - erano reggimenti.
Per troncare sul nascere la solita baruffa circa chi fosse responsabile di quel “dannato viaggio” Mastino decretò:
“Adesso cerchiamo da mangiare. Ho una fame che non ci vedo.”
“E dove andiamo?” chiese Patata “I menu all’esterno sono scritti in svedese, i prezzi sono indecenti e sono pronto a scommettere che si tratta di merdate.”
Eravamo rassegnati a un hot-dog innaffiato da soft drink quando (secondo incontro sorprendente del viaggio) un tizio ci s’avvicinò e disse:
“Ma guarda chi si vede! Cosa ci fai da ‘ste parti?”
Si trattava del “Disperso”, un compagno di classe di Patata il quale - appena presa la maturità – era partito per la Svezia in viaggio di piacere, ci s’era trovato bene e da tre anni aveva piantato radici Stoccolma.
Cosa facesse per campare non era chiaro, ma si trattava d’un tipo alla mano, disponibile, dall’aspetto curato e signorile; tuttavia - osservandolo bene - la sua faccia appariva stranamente segnata e il suo sguardo stranamente allucinato. Per natura non mi piace esternare giudizi sugli altri, neanche se sotto pseudonimo, però qualche vago dubbio sul Disperso ce l’ho tuttora.
Quando seppe della nostra immediata necessità, il Disperso c’indicò un ristorante italiano ubicato in una viuzza poco distante.
Quindi Patata gli disse:
“Senti Disperso, dovremmo domandarti qualcos’altro.”
“Immagino cosa.”
“Allora perché non ti fermi con noi?... Basta che facciamo alla romana, non nuotiamo nell’oro.”
“Ben volentieri... Vogliamo andare?”
Il locale non era un “cinque stelle” e la cucina si rivelò piuttosto dozzinale, però i prezzi erano buoni e i piatti autenticamente italiani per cui il modesto pasticcio di lasagne che divorai mi sembrò “mangiare da re”.
Naturalmente, placati i morsi della fame, sottoponemmo il Disperso a una raffica di domande circa l’argomento cardine e lui ci rispose con pazienza.
“Sia chiara una cosa, gente: se pensate che le svedesi vi corrano dietro a dozzine solo perché siete italiani, sbagliate di brutto.”
“Ma che cazzo dici?” obiettò Patata “In Kungsgatan ne abbiamo agganciate almeno cinque o sei, e tutte gnocche imperiali!”
“Però uno straccio d’appuntamento non l’avete rimediato. O sbaglio?... E poi avete visto quanti coatti famelici circolano per Stoccolma a caccia di gnocche e rovinano la piazza? Date retta a me, tre sono le cose vere: primo, se vi mettete con una, quella viene a letto con voi senza tanti complimenti; secondo, se andate a casa di lei e ve la portate in camera, i genitori non fanno una grinza...”
“Però lui, a Landskrona, non...” ghignò Patata indicando Mastino.
“Fatti i cazzi tuoi” reagì Mastino “e lascialo parlare!”
“Terzo: se una ci rimane non succedono drammi, il governo è molto generoso con le ragazze/madri. Tutto il resto sono BALLE. Le svedesi non la mollano al primo italiano che passa... Quanto tempo pensate di fermarvi?”
“Mah, non so... qualche giorno.” rispose Patata.
“Ahi, di male in peggio. Sapete una cosa? Anch’io io, i primi tempi, non ho battuto chiodo, poi però... Vedete gente, prima di... concludere ci sono i tempi tecnici: lui deve mostrarsi carino, lei vuole conoscerlo meglio...”
“Mastino ‘ste cose le sa bene.” ghignò ancora Patata, sempre indicando il capo spedizione.
Quella sera Patata era decisamente indisponente, però la sua ironia nei confronti di Mastino mascherava un certo sconforto.
“Imbecille!” ri-reagì Mastino “Piantala di sfottere o ti sfondo il culo!”
A quel punto il Disperso ci osservò attentamente e chiese:
“Ma vi siete guardati allo specchio?”
Ci guardammo l’un l’altro quindi Patata rispose confuso e umiliato:
“Vabbé, Disperso, non saremo Alain Delon, ma in giro ho visto di peggio.”
Nota a margine: all’epoca l’attore francese era l’equivalente al maschile di Brigitte Bardot.
“Non intendevo questo.” spiegò il Disperso “Il fatto è che siete conciati come pellegrini. Scusate la sincerità ma fate schifo.”
Diciamolo: “Er Monnezza”, al nostro confronto, sarebbe sembrato un dandy.
“Non avete, che so, un completo, una camicia, una cravatta?” continuò il Disperso.
“Certo, e facciamo la nostra figura, modestamente.”
“Allora ci sono due soluzioni, ma non prometto niente: o vi vestite come si deve e andate in questo locale.” disse il Disperso scrivendo su una bustina di Minerva “O rimanete come siete e andate al luna park, però lì ci sono i raggar e rischiate di brutto, se poi arrivano anche gli sbirri sono cazzi.”
“E ‘sti raggar chi sarebbero? E gli sbirri che c’entrano?” domandai allarmato.
Il Disperso si dilungò in una dissertazione su “raggar” e sbirri tanto dettagliata che sospettai avesse avuto a che fare con loro.
I famigerati “raggar” erano i soliti bulli che alla sera s’ubriacavano e andavano in cerca di rogne; il cielo sa come facessero a ubriacarsi in un paese semi-proibizionista come la Svezia, in cui gli alcolici erano carissimi e difficilmente reperibili, però loro ci riuscivano egregiamente. Avevano i loro luoghi preferiti (tra cui, appunto, il luna park) dove bighellonavano a gruppetti cercando d’attaccare briga con chicchessia; fortunatamente i gendarmi non stavano a guardare, anzi tenevano d'occhio le bande aspettando la prima mossa di quei balordi per manganellarli senza pietà e sbatterli in gattabuia.
Ma, spiegò il Disperso, ancor peggio andava a eventuali stranieri coinvolti in una rissa, perché – se è vero che gli sbirri godevano a pestare e arrestare i raggar – ancora di più godevano nell’usare lo stesso trattamento verso gli stranieri, particolarmente quelli che cercavano d’agganciare le ragazze.
“Se i raggar vi provocano” chiarì il Disperso “la cosa migliore è ignorarli ma soprattutto non mostrate paura, proprio come si fa con i cani aggressivi.”
“E se insistono e cominciano a menare?” chiese Mastino.
“Allora la faccenda diventa difficile.”
“Perché? Ci vanno pesante?”
“Macché, sono talmente ubriachi che non sanno neanche mirare alla mascella; il rischio è un altro: se uno gli dà uno spintone vanno giù come sacchi di merda e magari si fanno male, allora arrivano gli sbirri e sono veramente guai.”
Come detto, il Disperso mostrò di avere ottime cognizioni in materia e questo mi fece sospettare qualcosa circa il motivo per cui la sua faccia appariva stranamente segnata.
Dopo cena ringraziammo il Disperso e ci salutammo; quando lui si fu allontanato commentai:
“Poche ore che sono arrivato e ‘sta Stoccolma comincia già a starmi sulle palle.”
“Effettivamente...” ammise Mastino.
“Oltretutto guardate la fauna.” intervenne Patata.
Non fosse stato per la babele di dialetti regionali italioti, la Kungsgatan sembrava la “Via Roma” d’una città nostrana. Sentimmo brani di conversazione tipo:
“E adesso che faccio con Ingrid? La Mini non ha i sedili ribaltabili.”
“Non tirarla in lungo: tu con Ingrid non combini un tubo, hai troppa paura.”
Oppure:
“Quanti appuntamenti hai stasera?”
“Quattro, ma tre m’hanno già dato buca.”
Due di Macerata - a bordo d’una minuscola “Innocenti Spider” - litigavano furiosamente:
“E adesso me dici come fàmo a rimorchia’ con ‘sta tinozza? La donne ‘ndove le mettémo? In saccoccia? Potevi farte presta’ la Flavia da babbo tuo.”
“Io so’ il padrone e rimorchio in màghina, tu me aspetti alla pensione oppure rimorchi a piedi. Tie’!”
Quando andammo a riprendere la Simca, uno di Quarto Oggiaro ci s’avvicinò e chiese.
“Sedili ribaltabili?”
“Si, optional.” rispose Mastino “Perché lo chiedi?
“Beati voi: qua senza sedili ribaltabili si combina ‘na gott’, vacca boia!”
Fossero bastati i sedili ribaltabili...

ANCORA A STOCCOLMA
Anche se mancano i monumenti di rilievo, trovai Stoccolma una gran bella città: ariosa, ordinata, pulita, altimetricamente mossa, piena di verde e magnificamente distesa tra il mar Baltico e il lago Mälaren, la cui estensione (oltre tre volte il Garda) non è apprezzabile dalla città in quanto si tratta d’un bacino molto articolato e ricco d’isole, penisole e profonde insenature su una delle quali sorge appunto la capitale. La metropoli, pur se edificata sull’acqua come altre città nordiche, è assai diversa da queste: certi scorci rievocano Parigi, Monaco di Baviera o addirittura Torino, ossia città poste a più basse latitudini.
Questa l’impressione che ne ebbi mentre - l’indomani mattina - traslocavamo in un altro campeggio, sito da tutt’altra parte, nel quale trovammo una situazione migliore: tanto verde, splendida posizione sulle rive del lago e niente nomadi; per contro era presente un ingente numero di quei “nomadi del sesso fantasticato” fin troppe volte citati.
Piantate le tende tentammo una seconda volta la bravata: balneazione nel lago Mälaren! La tentammo anche perché, nelle limpide acque, guizzavano ninfe bionde con indosso bikini che – dalle nostre parti – avrebbero provocato l’intervento del vigile di spiaggia. Ovviamente meduse non ce n’erano ma, al confronto, la temperatura del Baltico a Flensburg era da Caraibi sicché, dopo venti secondi, eravamo già fuor d’acqua tremanti e violacei. In più il cielo si stava rannuvolando.
C’eravamo appena rivestiti quando le cateratte del cielo si spalancarono, costringendoci a riparare nelle nostre “cucce” attendendo che spiovesse... Campa cavallo! Fortunatamente due ospitali livornesi - alloggiati in una grande tenda canadese e impietositi dalla nostra situazione - ci chiamarono per farci stare un po’ più comodi e, siccome era ora di pranzo, c’invitarono a preparare qualcosa nella loro tenda.
Ingredienti forniti dai livornesi:
· riso Vialone Nano in quantità,
· un paio di dadi da brodo,
· qualche crosta di grana non ancora del tutto ammuffita.
Ingredienti forniti da noi:
· un vasetto di sugo Star al pomodoro,
· tre formaggini “Tigre”,
· qualche sottiletta rattrappita.
In sostanza quanto bastava per preparare un risotto ai tre formaggi e pomodoro. Lo spazio al coperto c’era, pentola e fornelletto pure quindi chi scrive (l’unico a sapere come si preparava un risotto) si mise all’opera.
A fine cottura, osservai:
“Sarebbe migliore se potessi completarlo con un po’ di vino.”
Non visto, Mastino m’allungò una pedata: oramai la nostra scorta di Cabernet era agli sgoccioli.
“Noi vino ‘un ci s’ha, però ci s’ha ancora du’ dita di grappa.” disse uno dei livornesi.
“Non è la stessa cosa però si può sempre fare la prova.” replicai.
“O grullo, tira fòri la grappa.”
Non sarò creduto ma – forse a causa del freddo, dell’umidità e dell’appetito – il mio risotto al pomodoro/tre formaggi+grappa ottenne un successone. Pensai quasi di brevettare la ricetta e venderla alla “Knorr” per i suoi famosi liofilizzati.
Passammo il pomeriggio nella grande canadese fumando, bevendo grappa (per fortuna le due dita andavano intese in senso verticale), giocando a briscola e chiacchierando con i livornesi circa il solito tema; poi li invitammo a seguirci nel locale segnalato dal Disperso.
“Ci piacerebbe, ma ‘un s’ha manco un petacchino per gli extra. Quel che ci s’ha basta per pagare du’ o tre notti in campeggio, du’ o tre panini e la benzina pel ritorno.”
“Per cui domani, ragazzi, noi due si rientra a Livorno, ci si sistema, ci si fan dare un tremila lire da’ nostri vecchi e poi di corsa a Viareggio. Là un paio di tope le si rimedia di sicuro, meglio che qua, dove in una settimana ‘un s’è rimediata ‘na sega.”
“Proprio niente?” chiese nervoso Patata.
“Niente.”
“In una settimana?”
“Maremmaiala! Se t’ho detto niente gli è niente.”
“Io” intervenni “non mi sono mai bevuto la storia delle svedesi che...”
“E chiudi quella fogna!” mi zittì Mastino sgarbatamente.
“Sei ripetitivo!” gli fece eco Patata altrettanto sgarbatamente.
Intanto il diluvio era cessato, per cui – ringraziati i cortesi ospiti - potemmo ripulirci, indossare i vestiti buoni e partire per il mitico locale lasciando una scia di dopobarba “Proraso”.
Il locale era una grande balera e, nella penombra, scorgemmo una folla di tizi immobili, con gli abiti delle occasioni, i volti bruni, i capelli corvini lucidati dalla brillantina; molti di loro - nonostante ci si vedesse poco - inforcavano “Ray-Ban” a specchio. Tutti ostentavano un atteggiamento seduttivamente accigliato e misterioso mentre solo poche coppie ballavano sulla pista.
Certamente si trattava d’onesti immigrati da terre mediterranee, i quali trascorrevano una serata nel locale; forse per questo ci sentimmo spaesati. Io ebbi quasi la sensazione di trovarmi sul set del vecchio film “Il Diavolo” con il caro Alberto Sordi (chi non l’ha mai visto se lo procuri: si divertirà e capirà il nostro stato d’animo).
“Se rivedo quell’imbroglione del Disperso gli spacco la faccia!” ringhiò Mastino “Guarda che roba: ci saranno almeno quattro uomini per ogni donna.”
“Bada che il Disperso l’ha detto: non prometto niente.” obiettò Patata “Però hai ragione, in più solo una su quattro delle donne è decente.”
Infatti si trattava in maggioranza di mature “mandrugone” in cerca del “macho” latino.
“Se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere... Eccoci servite le famose svedesi che ci stanno con tutti.” commentai “Mi vengono in mente i pifferi di montagna.”
“Che c’entrano adesso i pifferi di montagna?” chiese Mastino.
“Quelli che andarono per suonare e furono suonati.” ghignai amaro.
“Taci, altrimenti la faccia la spacco a te! Tu e le tue battute idiote fate cagare!” sbraitò Mastino.
L’unico motivo che ci trattenne un po’ nel locale è che vi si serviva – sia pure a prezzo stratosferico – della birra; però, una volta bevuta una bottiglietta, ce ne uscimmo in preda a crisi depressiva. Dal momento del nostro ingresso in quella fetecchia di balera era trascorso meno d’un quarto d’ora.
La mattina seguente, quando ci alzammo, i livornesi erano già partiti e il tempo era ancora grigio, però non pioveva. Mentre bevevamo il caffè, la nostra attenzione cadde su tre tizi arrivati in camping a bordo d’un taxi dal quale stavano scaricando le masserizie.
Come i tre ci spiegarono in seguito, appena giunti a Stoccolma, alla Triumph “Vitesse” del capo spedizione s’era rotto un giunto, pezzo difficilmente reperibile per cui la riparazione prevedeva tempi e costi non indifferenti.
Il capo spedizione era Esteban, uno studente colombiano figlio d’un pezzo grosso dell’ambasciata colombiana a Parigi. Si trattava d’un individuo dalla pelle olivastra, i capelli nerissimi, il fisico tarchiato. I grossi occhiali da miope, l’aria bonacciona e il sorriso aperto ne facevano un soggetto simpatico, tanto più che Esteban si rivelò un ragazzo istruito (parlava quattro o cinque lingue), semplice ed educato.
Gli altri due erano Fernand, un parigino verace, e Gutierrez, un cileno che studiava nella capitale francese. Si trattava di due individui dal fisico smilzo e scattante; non erano meno simpatici di Esteban ma ebbi l’impressione si trattasse di due tipini da prendere con le molle. Più precisamente - nonostante il fisico - avevano l’aria di soggetti in grado di sistemare avversari ben più grossi a furia di calcioni, testate, morsi e colpi bassi... non so se mi spiego.
Comunque non tardammo a intenderci, anche perché i tre osservavano con interesse la Simca quasi volessero valutarne la capienza. Mastino capì l’antifona e fu così che dopo il pranzo ci stipammo sulla Simca in sei e, dietro consiglio di Esteban (il quale le cose le sapeva e aveva una guida), visitammo il “Vasa Museum”, all’epoca ancora in allestimento ma già di grande interesse.
Che cos’è il “Vasa Museum”? Non è questa le sede per dilungarsi per cui invito eventuali interessati a documentarsi su Internet: indubbiamente – ora che l’allestimento è completato – una visita presenta un interesse ancor maggiore.
Intanto s’era fatta sera e il tempo, stranamente, teneva, di conseguenza Mastino decise di fare l’ultimo tentativo, ossia una “battuta di caccia” al luna park di Stoccolma, non senza avere riferito ai tre nuovi compari quanto detto dal Disperso circa il rischio raggar. I tre non mostrarono la minima esitazione anche perché – ci feci caso solo allora – il colombiano era provvisto di due bicipiti come mortadelle, sicché sospettai che anche lui, sotto un’apparenza tranquilla e bonaria, celasse un caratterino niente male.
Confortati dalla compagnia, entrammo al “Tivoli” (omonimo del più famoso “Tivoli” di Copenhagen ma più modesto) e, dopo un giro d’orientamento, constatammo che quasi tutte le fanciulle appetibili erano accompagnate da un moroso formato “Conan”.
“Anche qua non si batte chiodo. Comincio veramente a rompermi i gemelli.” disse Mastino dopo avere valutato la situazione.
“Già, meglio andare a nanna.” confermò Patata sempre più sconfortato.
Imboccammo pertanto il viale che menava all’uscita quando... Eccoli! I raggar!
In più il viale era affiancato da zone d’ombra e sospettammo - non senza motivo – che vi si nascondessero drappelli di sbirri pronti a entrare in azione con sfollagente in pugno.
Martoriato da uno spiacevole tumulto intestinale dissi:
“Qui i casi sono tre: o ci lasciamo pestare da quella gentaglia, o ci lasciamo pestare dagli sbirri, o ci lasciamo pestare da entrambi: in tutti e tre i casi finiamo in guardina o all’ospedale.”
“Ma ci sarà pure un’altra uscita.” disse Patata guardandosi attorno terrorizzato.
“Tu e le tue idee!” rispose Mastino “Così quelli capiscono che abbiamo paura e attaccano subito.”
Quella sera il ruolo dell’eroe toccò al colombiano il quale si piazzò a gambe divaricate - stile Tex Willer - tra noi e i raggar, sfilò gli occhiali, incrociò le braccia sul torace ostentando i bicipiti e squadrò la banda con aria di sfida.
Un ributtante trippone che puzzava di sudicio, di birra e di vomito avanzò verso Esteban barcollando e apostrofandolo in inglese (traduco):
“Ehi, fottuto terrone (= fucked dago), che hai da guardarci?”
“Dici a me?”
“Sì, proprio a te, merda (= shit)! E lo dico anche alle altre merde che ti tiri appresso.”
Il colombiano avanzò verso l’energumeno, lo guardò impavido negli occhi - resistendo all’alito fetido - gli piantò l’indice nella trippa e disse semplicemente:
“Niente risse (= no fight).”
Intanto, nelle zone d’ombra, si percepiva un certo fermento e s’intravedeva il bianco di lunghi manganelli e di fondine semiaperte, mentre Fernand e Gutierrez si tenevano pronti a dare manforte.
“Ripeti se hai coraggio!”
“Niente risse, ho detto.” ripeté Esteban con fermezza.
L’energumeno proruppe in una sghignazzata oscena e s’allontanò berciando:
“I soliti terroni codardi... Dai amici, lasciamoli perdere e cerchiamo qualcuno con le palle!”
Fiuuu!
All’improvviso il vialone s’animò di sbirri frustrati e delusi... In proposito non vorrei dare l’idea che la Svezia anni 60 fosse uno stato di polizia. Nient’affatto: nella democratica Svezia polizia e magistratura sono al servizio del cittadino e servire il cittadino significa anche punirlo quando sgarra, senza tanti sconti e senza guardare in faccia nessuno; lì la legge è veramente uguale per tutti e, se un qualche lestofante osasse ritenersi “più uguale” degli altri, dovrebbe amaramente ricredersi. Tutto qua.
Mentre rientravamo al campeggio, Esteban ci spiegò che a Parigi faccende del genere erano all’ordine del giorno e che lui, assieme a Fernand e Gutierrez, ne era rimasto spesso coinvolto (ebbi il addirittura sospetto che le zuffe fossero il loro hobby preferito): solo mostrando il passaporto diplomatico aveva risparmiato a sé stesso e ai due scagnozzi le ire della “Gendarmerie Nationàle”.
Appena giunti al campeggio io e Patata ci fiondammo ai servizi... appena in tempo! Augurata la buona notte ai tre nuovi compari, Mastino convocò l’assemblea e decretò:
“Chiuso, ragazzi, domani si parte: ne ho veramente le tasche piene! Non si combina un tubo, spendiamo una barca di soldi, mangiamo merda di vacca, abbiamo quasi finito il vino, abbiamo rischiato d’essere malmenati e sbattuti dentro; in più, come non bastasse, c’è un clima del cazzo... Domani in serata voglio essere a Copenhagen, intesi?”
“E perché?” obiettò Patata “Ci siamo già stati, anche lì non abbiamo combinato un tubo e c’è un clima del cazzo. Aggiungo che non mi vanno i posti dove rischi di scoprire che una bella gnocca è un uomo.”
“A Copenhagen entro domani sera, ho detto! Almeno lì la birra si trova dappertutto e costa meno. Poi staremo a vedere. Chi non è d’accordo l’accompagno in stazione e buon viaggio!”

INIZIA LA RITIRATA
La mattina dopo Mastino s’alzò insolitamente presto: ricordava Napoleone quando dette ordine alle sue truppe di cominciare la ritirata di Russia; stivammo la Simca e salutammo i tre provvidenziali compari. Per la cronaca, Patata ed Esteban - anche dopo i rispettivi matrimoni – si tennero in contatto e si scambiarono numerose visite; poi i miei rapporti con Patata cessarono e anche quelli con Mastino, sebbene non del tutto, si diradarono perché così è la vita, di conseguenza non ho più saputo nulla dei tre giramondo capitati a Stoccolma a bordo d’una “Vitesse” in avaria.
Non pioveva ma il cielo era imbronciato a 360°: in Svezia, quando il riscaldamento globale non era ancora stato inventato, agosto si presentava come un mese già autunnale, e si vedeva. Il clima accrebbe la nostra depressione, la quale raggiunse il culmine quando approdammo sul grande lago Vättern (circa sei volte il Garda). I siti dedicati al bacino lo dipingono come un paradiso per trekking, mountain bike, sport velici, villeggiature eccetera, ma a noi, che provenivamo da una strada alta sul livello del lago, il panorama dell’immesso specchio - che s’estendeva a perdita d’occhio, immoto e circondato da colori resi smorti dal cielo plumbeo - apparve d’una tristezza suggestiva ma opprimente, tanto da farmi sospettare che le voci secondo cui la Svezia deteneva il triste primato dei suicidi non fossero del tutto inattendibili.
Dubito peraltro che tali voci fossero vere in quanto, nel nostro paese, alcuni ambienti vedevano la Svezia di malocchio e non perdevano occasione per denigrarla.
I clericali sostenevano che in Svezia i suicidi erano tanti per colpa dei costumi linceziosi; in realtà i clericali “rosicavano” perché la Svezia era fieramente laica e antipapista, e lo è rimasta: non per nulla il papa polacco vi fu accolto con estrema freddezza.
I comunisti sostenevano che in Svezia i suicidi erano tanti per colpa della mancanza di spirito rivoluzionario; in realtà i comunisti “rosicavano” perché gli odiati “cugini” socialdemocratici seppero creare un modello assai migliore del loro “paradiso” sovietico.
Gli iperliberisti reazionari e fascistoidi (alias tutti gli iperliberisti, non solo quelli nostrani) sostenevano che in Svezia i suicidi erano tanti per colpa del “welfare”, che frustrava ogni stimolo alla “sana” competizione e privava i cittadini dell’esaltante esperienza d’arrabattarsi ogni giorno per la pagnotta; i realtà gli iperliberisti “rosicavano” perché in Scandinavia le “sinistre” (una volta tanto) seppero realizzare uno stato sociale efficiente partendo da zero e senza ostacolare la libertà d’iniziativa. Gli iperliberisti U.S.A. degli anni 80, poi, “rosicarono” tanto da commissionare l’assassinio d’un illustre e stimato premier svedese, uno dei più grandi politici del secolo scorso (almeno questa la mia opinione sulla vicenda).
Se tutti gli italiani che s’interessano di politica leggessero queste righe s’incazzerebbero di brutto, ma, siccome nessuno le leggerà, non rischio il linciaggio. In definitiva - e al di là d’ogni colore politico - il benessere e l’efficienza che caratterizzano certe terre si riassumono in un solo nome BUONGOVERNO!!!
Ma non divaghiamo.
La pioggia ci risparmiò sino ad Halsingborg, dove giungemmo al tramonto; il cielo, nero come pece, non presentava l’usuale chiarore delle notti scandinave; in più tirava un ventaccio di tramontana e le acque del Sund erano sconvolte da marosi che sballottavano il piccolo traghetto su cui eravamo imbarcati, suscitando una spiacevole reazione nel mio stomaco. Tutt’un tratto - terrificante allucinazione – credei di vedere un cavolo semicrudo, motivo per cui dovetti precipitarmi alla murata dove... Bluuurp!
Inutile specificare che i due turpi individui risero a crepapelle.

A COPENHAGEN II ATTO
Copenhagen ci riaccolse sotto la pioggia battente e solo una breve tregua ci consentì di piantare le tende senza bagnarci fino al midollo; tuttavia ritrovare qualche buona “Carlsberg” migliorò notevolmente il tono dell’umore.
Il giorno seguente nulla di nuovo in fatto di clima: piovaschi alternati a brevi tregue. Verso sera ci recammo in centro e Mastino propose:
“Vogliamo andare al Tivoli?”
“Non t’è bastato quello di Stoccolma?” chiese Patata.
“Ma và, i danesi sono più tranquilli degli svedesi.”
“E tu come lo sai?”
“Lo so perché sì e basta... E poi guardatevi attorno: è pieno di turisti, di famiglie, di gente perbene ed eventuali raggar non s’azzarderebbero a provocare casini. Andiamo, ho detto.”
Una volta tanto Mastino aveva ragione: al “Tivoli” danese c’erano famiglie con bambini, turisti nipponici, qualche innocuo alcolista, la solita massa di “migranti” latino/mediterranei troppe volte menzionata, ma niente raggar e niente sbirri con manganello, al massimo qualche tranquillo “pizzardone” che non aveva niente da fare.
Dopo qualche giro su allucinanti montagne russe, Mastino appariva fiacco e scocciato.
“State a sentire voi due:” disse un bel momento “adesso torniamo in campeggio perché sono stanco morto.”
“Ma io no.” disse Patata.
“E io neanche: la svuotata sul traghetto m’ha rimesso in sesto.” dissi io.
“Allora facciamo così: si va in campeggio, io mi metto a letto e vi lascio la macchina, così potete andare in giro a combinare tutte le cazzate che volete; però, se me la graffiate, sarà meglio per voi sparire e arruolarvi nella Legione Straniera.”
“Non ci posso credere! Ci presti la macchina?” esclamò Patata allibito.
“Solo per stasera e domani si parte. Intesi?”
“Grazie Mastino, sei un amico!”
Ero e sono tuttora dell’opinione che molti individui siano disposti a perdonarti se ti sbatti la loro donna ma che - se loro ti prestano la macchina nuova e tu gliela graffi - siano pronti ad accopparti con le loro stesse mani. Di conseguenza lasciai che Patata si mettesse alla guida della Simca graziosamente imprestata dal capo spedizione.
Non sapendo dove andare, tornammo al “Tivoli” – in cui regnava ancora una discreta “movida” – e bighellonammo per il parco. Dopo una mezzoretta io e Patata confabulavamo sul da farsi quando fummo avvicinati da un ometto di mezza età: si trattava d’un tipo affabile il quale ci si rivolse nella nostra lingua:
“Buona sera giovanotti. Italiani, vero? E magari cercate compagnia.”
“Beh, possibilmente... Ma lei, abbia pazienza, chi è?” ribatté diffidente Patata.
“Non perdiamoci in chiacchiere, ragazzi; mi limito a dirvi che sono italiano anch’io ma vivo a Copenhagen da un sacco di tempo, per cui ho un certo fiuto... Che mi dite di quelle due?” chiese additando due ragazze poco lontano.
Si trattava d’una bionda e d’una mora, due tipi “beat” - se ben ricordo - ma non chiedetemi cosa significasse essere “beat” perché non sono mai riuscito a capirlo, però le due ragazze lo erano, ossia sembravano seguire la tendenza che precedette di poco il movimento “hippy”.
Personalmente sono refrattario alle mode e penso che talune tendenze fossero più che altro una scusa per faticare poco, vestire da pezzenti e apparire “trendy”. Le cose non sono cambiate di molto: anche oggigiorno molti indossano stracci – magari jeans sbrindellati da cui sborda l’agghiacciante elastico delle mutande di firma – solo che si tratta di stracci griffati per cui vestire da pezzenti è diventato molto costoso e, va da sé, faticoso. In sostanza si tratta sempre di roba da tamarri sfigati, ma questo è un altro discorso.
“Scusi, a lei che interessa?” chiese un po’ più accomodante Patata.
“Basta domande, ragazzi. Fidatevi di me e accontentatevi di sapere che quelle due sono interessate a voi due.”
“Dove sta l’imbroglio?” chiesi.
“Ma quale imbroglio? Nessun imbroglio, parola mia.” ridacchiò l’ometto “Allora, che mi dite?”
Guardandole meglio, le due tizie erano accettabili: capelli lunghi, fisico slanciato, volti regolari... Agghindate come si deve avrebbero fatto la loro figura, sicché borbottammo qualcosa di simile all’obamiano “Yes, we can”; quindi l’ometto fece le presentazioni e infine si dileguò augurandoci buona serata.
Chi era quell’ometto? Me lo sono sempre domandato e sono giunto a una conclusione: se esistono i volontari della Protezione Civile, i pompieri volontari, i medici volontari, i volontari autisti della Croce Rossa e via dicendo, perché mai non dovrebbero esistere i ruffiani volontari? In fondo è una forma di solidarietà anche questa.
Le due erano tipi socievoli per cui, senza troppi preamboli, le accogliemmo in macchina e ci mettemmo a cercare un posticino appartato... Che dire? Erano altri tempi: tempi in cui due giovani donne danesi potevano farsi scarrozzare da due giovani sconosciuti italiani senza rischiare stupri e due giovani uomini italiani potevano scarrozzare due giovani sconosciute danesi senza temere che le due - in combutta tra loro - simulassero uno stupro per trascinarli in un tribunale danese e rovinarli a vita.
Per questo motivo tutto filò liscio, ma fino a un certo punto.
Trovammo il posticino appartato, io mi dedicai alla bionda, Patata alla mora e la ravanata ebbe inizio.
Dopo un po’ Patata m’interpellò:
“Tu che conosci l’inglese, sai tradurre cosa dice questa?”
Scambiai due parole con la mora quindi riferii a Patata:
“Dice che non sei malaccio ma prima di fare quella cosa vorrebbe conoscerti meglio.”
“Pure lei! Ma che è? Un’epidemia?... E la bionda?”
“Credo la pensi allo stesso modo: però m’ha chiesto se non potremmo rivederci domani sera.”
“Porca puttana boia! Basta!” esplose Patata “Sono d’accordo con Mastino. Domani si parte: via da ‘ste terre di merda!”
“What does he say?” chiese la mora, preoccupata dalla rabbia di Patata.
“Don’t worry, miss. No problem... E il mio appuntamento con la bionda?”
“Se vuoi restare nessuno ti obbliga a seguirci, e poi in due si viaggia più comodi.”
“Questa è violenza morale.”
“Esatto.”
“Allora cedo alla violenza.”
Riportate le due tizie al “Tivoli”, scambiammo con loro ancora qualche “french kiss” di congedo e ci scambiammo gli indirizzi. Poi io e Patata risalimmo in vettura non senza aver prima gettato in un cestino della spazzatura il foglietto con gli indirizzi.

LA LUNGA “CAVALCATA” VERSO IL SUD
Verso le due del pomeriggio riprendemmo la via del ritorno.
Devo dire che rammento poco l’itinerario se non che fu distruttivo: Mastino, chissà perché, era stato preso dalla furia di raggiungere il Brennero quanto prima, ma lunga era la strada che conduceva a rivedere il tricolore e lunghe le notti che ci attendevano, a bordo della Simca tentando in qualche modo di dormire.
Fino alla frontiera DK-D - e anche oltre - seguimmo la medesima via percorsa all’andata; purtroppo il traghetto della JKL ritardò causa mare mosso, che peraltro sopportai senza rendere l’anima. Di conseguenza in serata eravamo ancora in terra danese. Due fette di pane spalmate con marmellata di mirtilli costituirono la nostra cena, consumata in uno spiazzo.
Lo spiazzo era defilato per cui decidemmo di pernottarvi anche se si trovava vicino a un passaggio a livello. Fu forse per questo che, mentre dormivamo della grossa, io e Mastino sentimmo Patata urlare:
“Sposta la macchina! Presto, idiota! Ci viene addosso!”
Le campane e i lampeggianti del passaggio a livello s’erano attivati e un trenino locale avanzava sulla ferrovia, a debita distanza.
“Chi cazzo ci viene addosso, pirla?” sbraitò Mastino.
“Eh... oh... cosa? Ho avuto un incubo. Sembrava proprio che il treno ci travolgesse.” spiegò Patata.
“Rimettiti a dormire, coglione!”
Più a sud abbandonammo l’itinerario dell’andata e ci portammo verso la frontiera con la DDR, su una statale che - a detta di Mastino - avrebbe ridotto la percorrenza.
Diluviò tutto il giorno, il percorso consisteva in un budello poco trafficato ma sconnesso, pieno di curve come la strada dello Stelvio e interrotto da frequenti deviazioni che sfioravano la “cortina di ferro”. Vedemmo distintamente i reticolati e le torrette dei famigerati “Vopos”, vedemmo cartelli con su scritto “Achtung Minen!”, elmetti, binocoli, fucili di precisione, Kalashnikov e mitragliatrici con colpo in canna, tanto che Patata, impaurito, disse:
“Speriamo che quei fottuti nazi camuffati da compagni non ci piglino per spie, altrimenti ci sforacchiano... Tu e la tua maledetta fretta di tornare! Proprio questa strada da capre dovevi prendere!”
“Taci, mona!”
Verso sera, in un “Imbiss”, mangiammo “hot dog” con senape accompagnati (finalmente!) da buona birra e ci preparammo alla seconda notte all’addiaccio, mentre Innsbruck - anticamera dell’Italia - era ancora dannatamente lontana.
Il luogo scelto fu un altro spiazzo tra i canneti, in riva a una palude. Fu forse per questo che, mentre dormivamo della grossa, io e Mastino sentimmo Patata urlare:
“Tira il freno a mano! Presto, idiota! Non vedi che finiamo in acqua?”
“Il freno a mano è tirato e siamo fermi come sassi, pirla!”
“Eh... oh... cosa? Ho avuto un altro incubo. Sembrava proprio che stessimo scivolando nell’acqua.” spiegò Patata.
“Rimettiti a dormire, coglione!
A Norimberga, in serata, imboccammo la sospirata “Autobahn” che scendeva a Monaco e quivi assistemmo a un esodo quasi biblico: non c’era area di servizio, piazzola d’emergenza, parcheggio che non fosse stipato d’automezzi, roulotte, furgoni, perfino vecchi autobus, in cui migliaia di vacanzieri nordici - uomini, donne, vecchi, bambini, cani, gatti - tentavano d’appisolarsi nonostante l’intenso traffico diretto a sud mandasse un rombo ininterrotto e assordante.
“Qui mi sa che se vogliamo dormire dobbiamo uscire dall’autostrada.” decretò Mastino.
Appena fuori dall’autostrada c’era buio pesto, per cui ci piazzammo nel primo slargo illuminato dai fari della Simca. Prima di dormire Mastino ammonì Patata:
“Attento a te: basta con gli incubi altrimenti sfascio la chitarra di Ciano su quella testa di cazzo che ti ritrovi!”
“La chitarra è a tua disposizione.” biascicai insonnolito “Adesso però vedete di chiudere il becco.”
“Bella coppia di stronzi!” concluse Patata addormentandosi.
Se non altro, quella terza notte all’addiaccio trascorse tranquilla.
Meno tranquillo, almeno per me, fu il risveglio: infatti, verso le sette, un’impellente necessità mi destò. Mi guardai attorno e vidi con costernazione che ci trovavamo su un montarozzo spelacchiato, visibile a grande distanza, senza uno straccio d’albero o cespuglio dietro cui nascondersi.
M ronfava della grossa e, conoscendolo, capii che non c’era verso di svegliarlo per portarsi in luogo più riparato. Smontai quindi dalla macchina con un rotolo di carta igienica in mano ed effettuai un sopralluogo. La situazione apparve subito critica. Il montarozzo era completamente esposto, l’autostrada, trafficatissima, correva a breve distanza, altre strade pericolosamente vicine al montarozzo erano percorse da altri automezzi e la necessità si faceva sempre più pressante.
Ormai rassegnato a dare spettacolo e sperando non passasse una pattuglia della Stradale, slacciai i pantaloni, buttai un ultimo sguardo poco convinto e (quando si dice la fortuna!) vidi l’agognato riparo da occhi indiscreti: una buca defilata che accoglieva una piccola discarica abusiva (fortunatamente ce ne sono anche in Germania). Scesi nella buca, raggiunsi una vecchia lavatrice “Miele”, mi ci aggrappai con le mani e... Aaah! Fatto.
Quando riemersi dalla buca Mastino, insolitamente, era già sveglio e m’apostrofò:
“Dove diavolo t’eri cacciato?”
Poi, vedendo la carta igienica:
“Ah, sei andato a scaricare?”
“No, sono andato a contemplare l’aurora, pirla!”
“Porco! Potevi aspettare che ti portassi in un autogrill.”
“Se aspettavo te...”
“Bando alle ciance, cagone! Monta su che partiamo.”
Alle sedici eravamo a Innsbruck e Patata dichiarò:
“Ormai manca poco, stasera mi pappo una tripla carbonara fatta da mammina con le sue mani.”
Le ultime parole famose... All’epoca “Brennerautobahn” e trattati di Schengen erano pura fantascienza. Pochi chilometri dopo il capoluogo tirolese cominciava il lungo calvario che i vacanzieri dovevano affrontare prima di giungere in terra italiana; Mastino imprecava come un ossesso contro “quei bastardi di doganieri”... e intanto pioveva a catinelle.
Oggigiorno code di quattro ore sono cosa normale ma all’epoca significavano crisi da stress, frizioni bruciate, bestemmie, autoradio a tutto volume, mutandieri nordici che smontavano dalle loro vetture e - sotto la pioggia battente - controllavano se il lungo serpente accennava a muoversi, eccetera. Comunque alle venti la frontiera A-I era superata e, verso le ventuno, ci trovavamo a Vipiteno davanti a tre pizze “alla tutto” e a una bottiglia di “Sylvaner” fresco e fruttato, cui seguirono altre due consorelle.
Dopo le grappe corrette caffè, Mastino chiese:
“Come siete messi a quattrini?”
“Tutto sommato potrebbe andare peggio.” risposi io.
“Neanch’io sono messo male.” rispose Patata “Perché questa domanda?”
“Sentite, avrei pensato che un paio di giorni al mare non guasterebbero: ci diamo una ripulita, ci asciughiamo, ci rilassiamo dalle fatiche del viaggio poi, se capita...”
“A me sta bene tutto, tranne l’ultimo paragrafo” disse Patata “Sono sfinito e ho il testosterone azzerato.”
“Anche a me sta bene,” feci eco “però non mi si parli di rimorchiare per almeno, diciamo, una settimana.”
“Allora tutti a Jesolo.” disse Patata.
“No, tutti a Lignano Pineta.” rispose Mastino.
“Perché proprio a Lignano Pineta? È più lontano.”
“Perché lo dico io e basta. Se non ti va, la ferrovia è a due passi.”
“Fanatico, bastian contrario e pure autocrate!” ringhiò Patata.
“Che significa autocrate?”
“Non lo so, ma so che tu lo sei e sei pure un po’ stronzo!”
“Sveglia gente, un ultimo sforzo! Paghiamo che si parte.” decretò Mastino.
La solita mania di trovare scorciatoie - che poi tali non erano – suggerì a Mastino di raggiungere la stazione balneare friulana attraverso le Dolomiti per cui, più a sud, imboccammo la val Gardena flagellata dalla pioggia eccetto che nella parte più alta dove – sui primi tornanti di Passo Sella - ci trovammo avvolti da una tormenta.
Mastino era un eccellente guidatore ma la Simca qualche qualità doveva averla se – pur trattandosi d’una “tutto dietro” - non accennò a testacoda e sbandate varie sull’insidioso straterello ghiacciato formatosi.
Superati i passi Sella e Pordoi m’appisolai mentre Mastino seguitava infaticabile e quando mi ridestai, verso mattina, eravamo dalle parti di Pordenone. Un’ultima coda ci attendeva sul lungo rettifilo che unisce Latisana a Lignano ma ormai era fatta e il tempo s’era finalmente messo al bello stabile.

A LIGNANO PINETA
Mentre - nella baracca all’ingresso del campeggio e ancora in abiti da temperature polari - attendevamo di registrarci, avvertii un acuto tanfo da caprone; lascio immaginare quale fu il mio imbarazzo quando m’accorsi che quel tanfo era emanato da noi tre!
Piantammo le tende, indossammo il costume da bagno, una bella doccia, qualche porcata messa assieme raschiando il fondo della cambusa comune e infine “ronf, ronf” sotto i pini marittimi fino a sera.
Programma della serata: aperitivo sulla “Terrazza a Mare” poi si vedrà.
Dopo l’arrivo degli spritz con “snack” Patata ruppe il silenzio:
“Che vacanza di merda!”
“Cosa dovrei dire io, allora?” saltò su Mastino “Che per venti giorni ho dovuto scarrozzare e sopportare due finocchi imbranati... Ah, se non ci fossi stato io... Ma di che ti lamenti? Se non sbaglio la vostra ravanata ve la siete fatta anche voi. Una ravanata per uno non fa male a nessuno, o no?”
“Già, ma una sola, miserabile ravanata non è precisamente il massimo.” intervenni “E poi pensavo che ravanata significasse qualcosa di più.”
“Quante storie! Voi due mi fraintendete sempre: non capite un’ostia! La prossima volta vi farò un disegnino... Che ne dite d’un giro di Moretti scure alla spina?”
“E vai!”
Dopo le “Moretti” il bilancio dell’avventura cominciò a sembrarmi meno deprimente e ancor meno deprimente m’apparve dopo avere constatato che alla “Terrazza” servivano del buon “Verduzzo di Ramandolo” fresco, abboccato e frizzante.
“Bah, sarò anche un babbeo” sentenziai dopo il primo bicchierozzo “ma io, tutto sommato, mi sono divertito. Però mai più mi metterò in viaggio con certe fisse per la testa. Secondo me un viaggio vuol dire tante cose: gusto della scoperta, stimoli culturali, vedere facce nuove, imparare l’arte d’arrangiarsi, adattarsi a convivere con due scorreggioni... Certo, se ci scappa l’avventuretta tanto meglio, ma se non ci scappa va bene lo stesso. Prometto che d’ora in poi mi regolerò così o peste mi colga!” dichiarai ingollando il terzo bicchierozzo.
Peste non mi colse e qualche avventuretta, nel mio piccolo, ci scappò. Ma questa è un’altra storia.
“Quando sei stufo di sparare stronzaggini fammi un fischio.” commentò Patata.
Sorprendentemente Mastino appoggiò la mia tesi:
“No, stupido!” intervenne deciso “Una volta tanto Ciano ha detto la cosa giusta... Miracolo o caso?”
“Contenti voi...” disse scettico Patata “Piuttosto, visto che siamo vicini alla Jugoslavia...”
“No Patata, la Jugoslavia te la puoi scordare: non ci andiamo e basta, cazzo!” rispose Mastino.
“Lasciami finire, cornuto! Visto che siamo vicini alla Jugoslavia mi chiedo se qui non abbiano per caso dello sliwowitz, magari ghiacciato.”
Per caso lo “sliwowitz” ghiacciato c’era e, dopo il secondo giro, il malumore di Patata si sciolse come d’incanto per cui, con occhi lucidi e voce impastata, dichiarò:
“Certo che, se ripenso alla volta che tu...”
E giù una risataccia.
“Dimentichi quella volta che tu...” rispose Mastino.
“E quella volta che lui...”
“E quella volta che io...”
“Minchione!”
“Culattone!”
“Puzzone!”
E giù a ridere sgangheratamente.
Quella sera gli avventori della “Terrazza” assistettero all’indecoroso spettacolo offerto da tre giovani cialtroni che bevevano e ridevano, ridevano e bevevano come etilisti incalliti davanti a un tavolino zeppo di bottiglie e bicchieri vuoti o in procinto d’essere vuotati.
E quella fu l’ultima nostra figura di merda.