LA DECISIONE
Negli spensierati ma ancor morigerati anni 60 certi papà di certi “figli di papà” viziavano sì loro eredi, ma non più di tanto; correva infatti l’anno 1965 quando “Mastino” (amico e compagno di studi), visti i brillanti risultati conseguiti nei primi esami universitari, ebbe in premio dal padre - facoltoso industriale, non “imprenditore” come s’usa dire ai nostri giorni, quando anche i “vu’ cumprà” sono definiti imprenditori - una “Simca 1000” azzurro metallizzata con i soliti, infuocati sedili in Skai nero e autoradio “Voxon” a ricerca automatica elettromeccanica.
In pratica il marchingegno funzionava così: si premeva un pulsante, l’apparecchio si metteva a ronzare e si vedeva un indice rosso scorrere lungo la scala analogica fermandosi laddove la sintonia trovava una stazione sufficientemente forte. Peccato non ci fosse granché da scegliere: in AM si captavano i programmi del primo, secondo e terzo programma RAI, in FM invece, pure (le radio indipendenti erano ancora di là da venire); le onde corte c’erano ma era come se non ci fossero, e sfido chicchessia a captare le onde corte con un’autoradio. Le audiocassette, poi, erano agli albori e i costruttori d’autoradio non avevano ancora pensato al mangianastri, però secondo Mastino il “Voxon” era comunque una ficata tant’è vero che - poco dopo gli eventi sotto narrati - glielo fregarono; del resto il prezzo dell’apparecchio era pari a circa il 20% di quello della vettura, per cui rubare un simile “gioiello” fu piuttosto redditizio per il ladruncolo.
Ma non divaghiamo.
Per festeggiare il dono, una sera io e Mastino ci trovammo davanti a due monumentali “Forst” ghiacciate; un bel momento Mastino propose:
“Perché non ci facciamo un viaggetto in Svezia?”
“Con La Simca?”
“E perché no?”
“E perché proprio in Svezia?”
“Perché sembra che lì ci sia... ehm, da ravanare.” rispose Mastino con fare allusivo
Dovete sapere che in quegli anni, nel Bel Paese, circolavano piccanti leggende metropolitane circa l’avvenenza e la disponibilità delle ragazze svedesi, ma si trattava più che altro di storie messe in giro da tamarri (ce n’erano anche allora, e mica pochi, solo che guidavano la “Vespa 150 GS” invece della “Golf” nera usata; adesso saranno finiti in casa di riposo o sotto una lapide); questi bei tomi - dopo le ferie a Riccione o a Jesolo o a San Benedetto del Tronto - bisbigliavano d’aver sentito dire da uno, il quale bisbigliava d’aver sentito dire da un altro, il quale bisbigliava d’aver sentito dire da un terzo...
Adesso - nel corso dei miei itinerari europei - mi capita d’incontrare delle turiste svedesi più o meno coetanee e, se penso che quelle femmine contro ogni tentazione sono quanto rimane delle mitiche svedesi anni 60, sono tentato da lugubri progetti suicidi; per fortuna un paio di “Nardini Riserva” bastano a confortarmi.
Comunque la ghiotta prospettiva mi convinse per cui - ingollata la “Forst” e ordinato un altro giro - ribattei:
“Si può fare.”
Per dividere la spesa, Mastino decise d’aggregare l’amico “Patata”, uno che stravedeva per la “gnocca”, ma si trattava di tanto fumo e poco arrosto; comunque Patata si specializzò - guarda caso - in ginecologia diventando primario in non so più che ospedale. Non lo incontro da una vita ma sono pronto a scommettere che, anche se ne ha vista tanta per via della professione, non ha perso il “vizietto”.
I PREPARATIVI
Il mio bagaglio consisteva in:
· jeans e polo scura (che indossai per quasi tutto il viaggio),
· camiciotto simil-militare da alternare alla polo,
· maglione,
· piumotto da sci (si sa: a quelle latitudini il solleone se lo sognano),
· qualche canottiera da sotto,
· qualche atroce mutanda “basket” ascellare con spacco anteriore,
· qualche paio di calzini in “Terital” color topo che mi procuravano un fastidioso prurito alla caviglie,
· costume da bagno,
· cianfrusaglie assortite.
In più, siccome non si poteva mai sapere e perché all’epoca - visto che il “casual” non l’avevano ancora inventato - la tipica tenuta da fico era la seguente, ficcai in valigia:
· completo estivo giacca/pantalone color kaki (o cacca, allora andava di moda),
· camicia bianca con tendicollo brevettato (cos’è il tendicollo? Informarsi),
· cravatta “regimental” in sintetico.
La mia attrezzatura da campeggio consisteva in:
· tenda canadese “Pinetina” senza sopratelo né abside, teoricamente una biposto, ma infilandoci la valigia, un paio di rotoli di carta igienica e la “Rolleiflex”, diventava una monoposto (poco male, io tengo alla mia “privacy”),
· saccopelo modello “mummia”, di quelli che uno ci fa la sauna anche se fuori nevica a cappellate,
· sgabello da pescatore tuttora in mio possesso, lo uso come poggiapiedi davanti alla tivvù,
· “Pentola/Filtro” brevettata, originale d’anteguerra, in alluminio e con scolapasta incorporato, molto funzionale, chissà che fine ha fatto,
· fornellino “Camping-Gaz” a butano.
Niente materassino gonfiabile, l’avevo ma era bucato e in più m’avevano fregato la pompetta; non avendo fondi per ricomprare il tutto mi rassegnai a giacere - come san Francesco - sulla nuda terra per venti lunghe notti; vabbè che la “Pinetina” il fondo ce l’aveva ma era come se non esistesse, però il sacco-mummia era molto soffice e protettivo sicché in qualche modo sopravvissi.
Quanto a Mastino e Patata, s’arrangiarono nella sbrindellata “Morettina” di Mastino che, avendo l’abside, poteva, in qualche modo ospitare due persone più qualche bagaglio; in più era pure fornita di sopratelo, accessorio importante visto il clima che trovammo.
L’attrezzatura dei due era completata da due sedie pieghevoli che minacciavano di sbregarsi ogni volta che uno le apriva e da un tavolinetto nuovo, con il piano rivestito in “Formica” che cominciò a scollarsi appena partiti.
La sera prima della partenza Mastino mi telefonò:
“Allora passiamo a prenderti domani sera. Mi raccomando la chitarra.”
“La chitarra? E per che farne?”
“Così le svedesi capiscono subito che siamo italiani e rimorchiamo alla grande.”
“D’accordo.”
Va precisato che possedevo una vetusta chitarra su cui sapevo si e no strimpellare una mezza dozzina d’accordi con cui accompagnare sgangherate canzonacce goliardiche, però avevo e ho una bella voce baritonale molto intonata (modestia a parte).
Alle diciotto del giorno seguente i due compari erano sotto casa mia. Non so come ma riuscimmo a stipare tutta la mercanzia, un po’ nel bagagliaio anteriore e un po’ nell’abitacolo, al posto del quarto passeggero; la chitarra fu appoggiata, in equilibrio instabile, sulla cappelliera; se stava dritta, attraverso il lunotto non si vedeva un piffero ma tanto si rovesciava sempre sulla capoccia del passeggero posteriore (Patata o il sottoscritto secondo i turni; infatti Mastino guidò per tutto il viaggio).
Debbo aggiungere che facevano parte della mercanzia anche nove bottiglie di vino rosso pregiato, più due taniche da 20 litri che riempimmo d’ottimo Cabernet sfuso, acquistato più tardi in una bettola della Valsugana nota a pochi aficionados.
Talvolta mi capita di pensare che, se oggi vedessero tre tizi combinati com’eravamo noi, gli sbirri ci fermerebbero per accertamenti, ma all’epoca - tra i giovani di buona famiglia - faceva molto trendy viaggiare combinati da pellegrini... E poi noi avevamo una Simca 1000 metallizzata, mica una Fiat 500 color pantegana o una Citroën 2 CV grigia come la maggioranza dei predetti giovani; vuoi mettere la differenza!
Così, alle 18 e 20 partii assieme ai compari e circa 100.000 lirette in saccoccia = 50 € d’oggigiorno; pare impossibile? Eppure, dopo circa 20 giorni e 7000 km percorsi, avanzai persino qualche spicciolo.
PRIMA TAPPA
Imboccammo la ss “Valsugana”.
Da Padova a Trento erano 120 km di budello tortuoso che attraversava un’infinità di paesi e con frequenti saliscendi ma poco male perché allora i TIR erano mosche bianche e il traffico prevalentemente in direzione sud, infatti tale via è e rimane la più diretta dal Brennero verso le spiaggione veneto-friulane; oltretutto, a quei tempi, il Nordest non era ancora “mitico”: niente capannoni, né pizzerie, né discoteche e via dicendo, per cui il traffico locale notturno era assai contenuto. Attualmente la situazione infrastrutturale è migliorata, ma da Padova a Carpanè la vecchia 47 è rimasta una fetecchia di strada, il tutto aggravato dal traffico, aumentato a dismisura.
“Dove pensi di fermarti?” chiese Patata a Mastino dopo un po’.
“Intanto tiriamo avanti, poi si vedrà. Se avete sonno dormite pure, se vi scappa cercate di tenere duro ma soprattutto non rompetemi le palle.” rispose Mastino, evidentemente intenzionato a battere il suo record personale di resistenza alla guida.
Breve fermata poco oltre Bassano - causa pieno di Cabernet - e su fino a Trento; poi Mastino accese il “Voxon” a tutto volume per tenersi sveglio mentre io e Patata tentavamo di dormire.
A Trento l’“Autobrennero” rimaneva ancora tra i sogni nel cassetto, quindi imboccammo la vecchia “Abetone-Brennero”: Bolzano, Vipiteno, confine I-A, Innsbruck, ri-confine A-D, sempre su strada statale con traffico scorrevole nella nostra direzione e asfittico in direzione contraria (Tra i crucchi il turismo di massa, magari a bordo d’una “Isetta”, era già imponente), e da ultimo Rosenheim dove potemmo finalmente entrare in una delle leggendarie “Autobahnen” tedesche!
Secondo gli attuali standard non erano poi granché: due sole corsie per senso di marcia, niente corsia d’emergenza ma solo una banchina laterale, spartitraffico striminzito e privo di guardrail, manto stradale in lastre di calcestruzzo risalente ai tempi di Hitler, motivo per cui le indispensabili giunture tra lastra e latra sottoponevano le sospensioni a un assillante martellamento.
Però le corsie erano separate (In Italia solamente l’“Autosole” era tutta a corsie separate, le altre sedicenti “autostrade” erano prevalentemente a corsia unica e con incroci a raso!), i w.c. degli autogrill puliti 24 ore su 24 - c’era addirittura il distributore di profilattici, un marchingegno inconcepibile nell’Italietta d’allora - la segnaletica efficiente, la rete già molto estesa, le colonnine di soccorso frequenti, ma soprattutto le “Autobahnen” erano gratuite, e lo sono tuttora!
La notte germanica era calda e opprimente però Mastino resisteva alla grande: avanti... avanti... Monaco, Stoccarda... tutun... tutun... tutun... Fottutissime giunture, finisce che mi scoppia una gomma!... Karlsruhe... Finalmente un albore rosaceo cominciò a tingere l’orizzonte verso est... tutun... tutun... Mannheim... tutun... tutun... Brevi soste per il pieno (Ehi, Avete visto quanto poco costa? Governo ladro!) e per espletare le funzioni fisiologiche (Aaah, ancora cinque chilometri e mi smerdavo fino al collo)... tutun... tutun... Magonza e finalmente Colonia, dove arrivammo all’una del pomeriggio.
Qui Mastino disse:
“Adesso me le sono proprio rotte.” e si mise a cercare un campeggio.
A COLONIA
Il campeggio c’era ma, almeno a giudicare dai cessi, doveva trattarsi d’un “Konzentrationslager” mai completato causa sconfitta del Terzo Reich e riciclato come struttura turistica, oltretutto a Colonia faceva un caldo asfissiante ma eravamo sfiniti e non ce ne poteva fregare di meno.
In cinque minuti piantammo le tende e mangiammo.
Menu del giorno:
· Ravioli in scatola alla bolognese, prelevati dalla piccola “cambusa” comune, serviti a temperatura ambiente e mangiati direttamente dalla scatola: un’orrida poltiglia color diarrea e speziata all’inverosimile nel vano tentativo di coprire il fetore dei conservanti (N.B. Erano prodotti da una nota industria alimentare ma si rivelarono un clamoroso flop... e te credo!).
· Bottiglie assortite di corposo vino rosso caldo come la pipì, ad alta gradazione, fortemente strutturato e con retrogusto tannico: l’ideale per un clima come quello.
Quindi ci mettemmo in costume da bagno, sciorinammo i sacchipelo sull’erba e ci buttammo a ronfare con il sole che picchiava spietatamente sui crani. Dopo tre ore mi destai in preda a un lancinante bruciore di stomaco e con la testa che scoppiava.
Terapia anti bruciore: cucchiaione di bicarbonato sciolto in acqua... Ruuutt... Aaah! Fatto.
Terapia anti emicrania: due aspirine, dieci minuti con la capoccia sotto il rubinetto... Aaah! Fatto.
Stessa terapia per i compari: dopo mezz’ora eravamo vispi come furetti e pronti a visitare la metropoli renana.
Meta d’obbligo il famoso duomo gotico dalle imponenti torri, miracolosamente scampato ai bombardamenti. All’uscita Mastino (autonominatosi capo spedizione) si guardò attorno e osservò:
“Qua è ancora tutto bombardato, mi sa che non ci sia più niente da vedere. Che vogliamo fare?”
In realtà, nonostante le ancor numerose tracce di distruzione, a Colonia c’era ben altro da vedere ma non lo sapevamo e non avevamo manco uno straccio di guida, per cui proposi:
“Perché non chiamiamo il Frìttola?”
Nota a margine: il “Frìttola” era un comune amico che, alcuni giorni prima, era venuto a Colonia per seguire un corso estivo di tedesco.
Mastino, che conosce la lingua, lo cercò via telefono (‘Sto maledetto crucco non capisce un beato cazzo!) e, dopo avere sbraitato a lungo con uno della famiglia di cui il Frìttola era ospite, riuscì a contattarlo. C’incontrammo pertanto con il compare e, non appena seppe che avevamo una discreta scorta di vino, s’offrì di riaccompagnarci in camping; dopo che ci fummo salutati, la scorta aveva subito un vistoso calo giustificato dal fatto che all’epoca il vino tedesco era una troiata (lo è tuttora), costava un frego di soldi e il Frìttola non era certo astemio (e non lo è tuttora).
Prima d’andare a dormire commisi un grosso sbaglio: scrissi e spedii una lettera a una “pen-friend” di Flensburg (cittadina alla frontiera tedesco-danese) ma, a questo punto, è necessaria una spiegazione.
All’epoca era usanza comune tra i giovani iscriversi a un “Pen-friend Club”. Si trattava di questo: dietro pagamento d’una modesta somma e previa spedizione d’alcuni dati personali, indirizzo e foto, si finiva su un bollettino spedito periodicamente agli iscritti, i quali potevano così corrispondere reciprocamente a mezzo posta: in sostanza i “Pen-friend Club” furono gli antenati delle chat e la cosa funzionava perché le poste funzionavano.
V’era chi s’iscriveva senza secondi fini - per collezionare francobolli esteri o per migliorare la pratica delle lingue - ma i più s’iscrivevano per cercare qualche partner farneticando circa avventure estremamente improbabili.
Io e Mastino eravamo iscritti a un “Pen-friend Club” e la pulzella di Flensburg era appunto una della mie corrispondenti, per cui, visto che Flensburg poteva essere inserita nell’itinerario e che la lettera sarebbe arrivata a destinazione prima di noi, le scrissi che avrei gradito incontrarla di persona e se, magari, non avesse per caso qualche amica con cui andare tutti assieme a fare quattro salti... una passeggiata... Insomma i soliti cazzeggiamenti.
Fine della spiegazione.
Ma perché scrivere alla “pen-friend” di Flensburg fu uno sbaglio? Leggete più oltre e saprete...
Mastino è sempre stato un gran lavoratore ma, quando andava in vacanza, non ne voleva sapere d’alzarsi prima delle 11. Per questo l’indomani alle 10 fui bruscamente destato da Patata che strillava:
“Finocchio pelandrone! Hai deciso di piantare radici in questo cesso di campeggio? Io mi sono già lavato, mi sono rasato, ho urinato e defecato, ho preparato il caffè e tu ancora dormi? Sveglia, cazzone!”
Dopo dieci minuti di strepiti udii Mastino biascicare:
“Calma stronzo! Adesso mi alzo... E piantala di prendermi a cazzotti le palle!”
Fortunatamente Mastino era avvolto nel saccopelo, altrimenti i suoi “gioielli” avrebbero veramente corso gravi rischi; comunque alla fine uscì dalla “Morettina” scaccolandosi e accendendo la prima delle 40 sigarette giornaliere che fuma tuttora, per cui potemmo tenere consiglio onde programmare la giornata.
“Stasera arriviamo ad Amburgo.” decretò Mastino.
“Perché proprio ad Amburgo?” domandò Patata.
“Perché ad Amburgo ci sono certi localini in cui fanno certi spettacolini e io voglio vederne almeno uno. Obiezioni?”
Ovviamente no.
AD AMBURGO
Sul far della sera eravamo nella metropoli anseatica; colà trovammo alloggio in una pensioncina per “Gastarbeiter” gestita da una vecchia decrepita e sita all’ottavo piano d’un palazzone prospettante una strada trafficatissima e rumorosa e, siccome anche lì faceva un caldo bestiale, fummo costretti a tenere le finestre spalancate.
Ma le lusinghe della notte amburghese ci attendevano...
Uscimmo quindi in giacca e cravatta con destinazione “quartieri del vizio”. Dapprima visitammo la famosa strada delle ragazze in vetrina ma, più che di puttanieri, la strada pullulava di turisti nipponici che - famiglia al seguito - fotografavano a rotta di collo.
Successivamente sbucammo sulla celebre “Reeperbahn” dove i summenzionati localini non mancavano; peccato che attorno ai relativi ingressi ronzassero nugoli di ceffi poco rassicuranti, oltre che di femmine piuttosto disinibite. Noi tre - studentelli d’una piccola città della profonda e bigotta provincia veneta - provammo quasi un senso di smarrimento; stavamo per rinunciare quando un “buttadentro” dall’accento meneghino ci apostrofò:
“Uèi voi! Italiani, vero ragazzi? T’el chì l’ambient’ che fa per voi... Dai, entrate, vi vedete qualche bel numerino, vi bevete una birrètta, vi divertite e spendete no una cifra.”
Il buttadentro era un tipo gioviale per cui aderimmo al suo invito, ci sistemammo in un separé, ordinammo le birre e ci accingemmo a vedere il “floor-show” (allora si chiamava così).
Mentre una spilungona sexy come un traliccio ENEL eseguiva un desolante numero di “strip”, Mastino disse:
“Speriamo che il prossimo numero sia meglio... Uh!... Dove diavolo s’e cacciato quel mona di Patata?”
Senza che né io né Mastino ce n’avvedessimo, quel mona di Patata era stato adescato da una formosa entraineuse e trascinato in un separé adiacente, ma il fatto più allarmante era la presenza, sul suo tavolo, d’una bottiglia già stappata di spumante a base di polverine!
“Brutta razza di maniaco!” esclamò Mastino “Che ci fai con quella troia?”
“Lasciami perdere!” rispose Patata “Ho già le mani nella gnocca.”
“E la bottiglia?”
“Quale bottiglia?”
“Quella lì davanti a te, idiota!”
“Porca la...” disse Patata sbiancando “Ma io mica l’ho ordinata... Adesso ci spennano!”
“No, caso mai adesso TI spennano... Beh, niente paura. Tu pensa a sbolognare la mignotta che al resto penso io.”
A questo punto va puntualizzato che Mastino era un marcantonio alto e robusto - già campione regionale di nuoto - simpatico e disponibile ma anche un po’ arrogante e incazzoso, disposto a menare le mani se necessario e soprattutto assai poco propenso a lasciarsi infinocchiare. Meriterebbe un encomio per la grinta mostrata nella circostanza.
Andò dal buttadentro milanese, lo prese per il bavero e ringhiò:
“Adesso và dal tuo capo e dì a quel ladro che, se non si riprende la sua bottiglia di merda, gliel’infiliamo dove sai e poi piantiamo un casino... Mővet’ baüscia!”
Lo sventurato, tremando come una foglia, confabulò con un ceffo stile Ucciardone il quale, vedendo Mastino sfilarsi la giacca e sbottonare i polsini della camicia, borbottò qualcosa e assentì, sia pure di malavoglia.
Il buttadentro, sempre tremando, tornò da noi e disse quasi implorante:
“Va tutto bene ragazzi, tutto bene, ma adess’ l’è mej che ve ne andate... Date retta a me, főra di ball’, nel vostro interesse.”
“Bah,” commentai appena uscito “meglio così: lo show era una vaccata e ci siamo fatti tre birrazze a sbafo.”
“Io che conosco il tedesco” aggiunse Mastino “ho capito cos’ha detto quel gran bastardo del padrone al suo paraculo: ha detto che avremmo meritato una lezione di quelle che dice lui.”
“Allora” intervenne Patata “abbiamo rischiato di brutto... Brava persona quel milanese, in fondo.”
“Taci mona, tutta colpa tua. Quando imparerai a non andar via di testa ogni volta che tira aria di gnocca?” concluse Mastino.
E la nostra “notte brava” amburghese finì lì.
Tornammo alla pensione e, come penitenza, a Patata fu assegnato il terzo letto, del tipo a scomparsa; quando lo estrasse dal relativo cassone, Patata provocò un mezzo disastro per cui dovette dormire su uno scendiletto non senza aver prima recitato un rosario di moccoli.
UM DRAMMA A FLENSBURG
L’indomani raggiungemmo Flensburg e, una volta piantate le tende, ci recammo alla stazione ferroviaria dove avevo fissato l’appuntamento con la “pen-friend”, sedemmo a un tavolo del buffet, ordinammo le solite birre e restammo in fiduciosa attesa.
Dopo qualche minuto vedemmo entrare una biondina allampanata ed espressiva come un merluzzo bollito.
“Boia!” pensai “In fotografia sembrava molto meglio.”
Non solo non aveva portato uno straccio d’amica ma s’era tirata dietro un biondino allampanato ed espressivo come un merluzzo bollito che presentò come suo moroso!
In quel momento non capii più un piffero: se la merluzza aveva qualche timore - tipo essere stuprata nel buffet della stazione da tre abietti giovinastri italiani - poteva darmi buca, ma che, oltre a essere una fetecchia, osasse presentarsi all’appuntamento assieme al fidanzato merluzzo lo ritenni un tradimento.
All’epoca ero piuttosto permaloso e, anche se tentai di non darlo a vedere, m’incavolai di brutto; salutai i due merluzzi con qualche frase di circostanza in inglese, li presentai ai due compari e poi, silenzioso, umiliato e offeso, mi misi da parte fumando nervosamente fetidi sigari locali, trincando come una spugna birra alternata ad anice secco locale e lasciando che fossero Mastino e Patata a intrattenere i due merluzzi.
In tutta la vicenda ciò che più m’indignò fu proprio l’atteggiamento dei due ribaldi che ritenevo amici, i quali un po’ conversavano con gli sgraditi ospiti, un po’ sghignazzavano e mi sfottevano senza misericordia. Col senno di poi ammetto che in fondo non avevano tutti i torti ma aggiungere beffa volontaria a beffa involontaria esasperò il mio stato d’animo.
Avrebbero potuto dirmi, che so:
“Non prendertela, ma hai visto che cauterio? Meglio perderla che trovarla.”
Oppure:
“Via, si sa che ‘sti mangiapatate sono una razza diversa, non la pensano come noi.”
O qualche altra frase consolatoria.
Macché! Lì a fumare, bere e sghignazzare... Giuro di non avere mai più subìto una simile umiliazione!
Quando, sempre troppo tardi, la coppia di merluzzi si fu congedata, sbottai:
“Sentitemi bene, brutti froci! Visto che siamo in stazione adesso vado in biglietteria a comprare un biglietto per l’Italia. Vi chiedo solo una cortesia: quanto rientrate da ‘sto viaggio di merda riportatemi le mie cose, poi potete pure andarvene affan...”
Solo allora i due ribaldi si resero conto d’avere esagerato e mi chiesero scusa; siccome avevo il difetto d’incazzarmi facilmente ma la virtù di disincazzarmi altrettanto facilmente, li perdonai e troncai la polemica concludendo:
“Purché di questa faccenda non si parli più, intesi?”
La mattina successiva, placatasi la buriana, decidemmo di concederci un giorno di relax, dato che il camping di Flensburg si trovava sulla sponda del Mar Baltico il quale, non so altrove, ma lì si presenta come una megapozzanghera a bassissima salinità, gelida, torbida e zozza. Tuttavia eravamo giovani e forti e volevamo tentare un’impresa da raccontare ad amici e discendenti, per cui osammo l’inosabile: ci facemmo il bagno!
Dopo trenta secondi ci accorgemmo che la megapozzanghera - oltre che gelida, torbida e zozza - era pure infestata da enormi meduse per cui schizzammo fuori dall’acqua a gambe levate. Anche non ci fossero state le meduse, non è che avremmo resistito molto di più: in fondo i ripugnanti invertebrati ci evitarono una broncopolmonite. Comunque l’anice secco locale si rivelò molto efficace per sedare i postumi dell’impresa.
L’indomani varcammo la frontiera D-DK: eravamo finalmente nell’anticamera della favolosa Scandinavia!
UNA RIFLESSIONE
Preciso che qui parlo della situazione nel 1965 e che non sono più tornato da quelle parti per cui ignoro se la situazione sia cambiata, ma dopo pochi chilometri in Danimarca avvertii una strana atmosfera: non so se rendo l’idea, ma mi parve d’essere giunto in una terra in cui chi aveva la fortuna di viverci era considerato “cittadino” e non “suddito”, una terra in cui si poteva constatare che il termine “buongoverno” non è un’astrazione socio-filosofica ma una realtà concreta, pur con qualche inevitabile “smagliatura” perché a questo mondo nulla è perfetto.
Una curiosità. La Danimarca era un vero paradiso per i possessori di “veterane”, o catorci che dir si voglia: pur essendoci allora un rapporto vetture/cittadini molto più favorevole che in Italia, circolavano addirittura vetture d’anteguerra, tipo “Balilla” tanto per intenderci. Dello strano fenomeno mi fu fornita una motivazione molto semplice: importazione (tutte le vetture erano importate), immatricolazione e circolazione erano soggette ad altissime imposte.
In sostanza il governo danese diceva ai cittadini:
“Se vuoi comprare una macchina sono cavoli amari, se poi la vuoi cambiare a ogni pipì di cane sono cavoli ancor più amari. Io spremo la tua auto come un limone ma in cambio ti prometto una cosa: i tuoi soldi serviranno per costruire case popolari dignitose in quartieri dignitosi, per fornirti istruzione e sanità a basso prezzo e ad alto livello, trasporti pubblici capillari, puliti ed efficienti, nidi e asili per accudire i tuoi figli senza che tu debba rinunciare al lavoro, indennità dignitose se perdi il posto, assistenza agli handicappati, perfino carburanti a buon mercato, eccetera. Ti assicuro inoltre una buona pensione in quanto farò l’impossibile per impedire a certi politicanti di mettere le loro sudice zampe sui soldi che tu verserai per garantirti una serena vecchiaia. Infine avrai a tua disposizione istituzioni economiche e funzionanti e, anche se qui c’è un re, la monarchia ti costerà assai meno di certe repubbliche delle banane”.
Promesse in larga parte mantenute e lo stesso dicasi per la vicina Svezia (meno esosa, però, nel tassare le auto). Per completezza d’informazione si deve sapere che – all’inizio del secolo XX – i paesi nordici erano tutt’altro che ricchi, erano terre di migranti, come dimostrano i numerosi cognomi scandinavi presenti in America e in Germania, quindi nessuno venga a dire: “Bella forza, quelli sono paesi ricchi da sempre”.
Nel nostro paese invece si decise altrimenti, e i risultati sono sotto i nostri occhi, solo certi signorotti che contano fingono di non aver occhi per vedere... Ma non buttiamola in politica: non è questa la sede.
Piuttosto torniamo a noi.
Bruno, un ex marò danese conosciuto in camping ci consigliò un traghetto gestito dalla JKL (vedasi su Internet) ubicato a poca distanza dalla frontiera; la traversata era un po’ lunga (2 ore e mezzo) ma in compenso ti scaricava direttamente sull’isola di Sjǽlland dove c’è la capitale: poca coda all’imbarco, nave ottima, prezzo conveniente, mare calmo, sbarco veloce al porto di Kalundborg e da lì a Copenhagen in un’oretta circa.
A COPENHAGEN
La città è molto vivace e piacevole, con i suoi canali, le sue case tipiche, i suoi locali, i suoi abitanti (discreti ma cortesi e spesso moderatamente anticonformisti, almeno ai nostri occhi di provinciali italioti) però va detto che chi, come me, avesse già visto Amsterdam, resterebbe forse un po’ deluso: a mio avviso la metropoli olandese rimane la più bella tra le capitali nordiche.
Quanto all’aspetto che più c’interessava, vedemmo parecchie belle ragazze, bionde, slanciate e dall’atteggiamento socievole, ma nulla di particolarmente eclatante.
“Stasera facciamo un giretto e vediamo meglio. Intanto sistemiamoci.” decretò Mastino un bel momento.
“Proprio adesso? Scordatelo!” ribatté Patata “Guarda lì avanti che pezzo di gnocca! Metti la prima, così la seguiamo pian pianino e poi vediamo d’agganciarla.”
“Però cammina in un modo che...” obiettò Mastino.
“Fà come ti dico, pirla, e subito!”
Poco davanti a noi, nella nostra stessa direzione, sul marciapiede procedeva a lunghe falcate una creatura alta e snella con una splendida criniera bionda e ondulata che le scendeva fino a metà schiena. Indossava un completo giacca-pantalone nero molto chic, un genere di capo che anche in Italia cominciava a prender piede tra le donne.
“Avanti piano... così. Sempre più piano... Dev’essere una modella...” disse Patata abbassando il vetro dalla parte del marciapiede “Adesso superala che l’aggancio.”
Ma Patata non agganciò un piffero perché, appena superato il presunto “pezzo di gnocca”, notammo che ostentava un paio di baffi e una barba lunghi e biondissimi!
Patata sbottò in una lunga ed elaborata bestemmia condita da improperi contro certi non meglio identificati “culattoni”, mentre Mastino ghignò:
“E poi il pirla sarei io... Lo dico sempre: sei uno squilibrato. Adesso hai addirittura le visioni.”
A quel punto mi sentii in dovere di prendere le difese del povero Patata.
“Beh, diciamolo:” commentai “visto da dietro sembrava proprio un gran pezzo di gnocca.”
La verità è che non eravamo avvezzi a certi soggetti perché in Italia, all’epoca, i cosiddetti “capelloni” - specialmente in una società chiusa e retriva come quella in cui vivevamo - erano rarissimi e fortemente invisi ai benpensanti, per cui l’equivoco di Patata era giustificabile. Aggiungo che lo spiacevole episodio si ripeté ancora un paio di volte ma poi imparammo a distinguere la differenza già da lontano.
Mastino chiuse l’incidente con la sua tipica prosopopea:
“Io l’ho capito subito che qualcosa non funzionava; adesso tutti in campeggio e basta cazzate, per quelle c’è tempo.”
Il campeggio di Copenhagen era un vasto rettangolo erboso, leggermente ondulato e senza manco un albero, ubicato in un quartiere di periferia anonimo ma ben tenuto. Pullulava di gente come un lazzaretto ai tempi della peste ma un francobollo di terra lo trovammo ugualmente.
Piantate le tende, mi guardai attorno e fui colpito da uno spettacolo inatteso: la maggior parte degli appestati... pardon, degli ospiti erano giovani italiani - ma non solo - giunti lì con i mezzi più disparati: in prevalenza macchine più o meno efficienti, ma anche furgoni VW in stato terminale, moto rappezzate, scooter scassati; i più temerari avevano viaggiato in “Willier” da corsa stracarica di roba, in autostop o con i mezzi pubblici (non con l’aereo: all’epoca costava troppo). Due catanzaresi erano arrivati dopo un’interminabile odissea superata grazie ad autostop, treni, traghetti e autobus; dormivano entrambi in una “Pinetina” come la mia e ci riuscivano solo perché erano piuttosto minuti e le loro masserizie erano sparse tutt’attorno.
In conclusione quei coetanei erano tutti di sesso maschile! Lo si poteva quasi definire un fenomeno migratorio “monosex”.
A quel punto dissi a Mastino con tono sarcastico:
“Davvero una bella idea quella di venire qua in capo al mondo a caccia di gnocca. Altro che ravanare! Prevedo una concorrenza spietata: così, a occhio, per ogni gnocca libera, maggiorenne e che non sia proprio un rutto ci saranno almeno trenta mandrilli arrapati come Patata che se la contendono.”
Patata saltò su.
“Ehi tu, merdone, chi sarebbe il mandrillo arrapato? Bada che ti rovino... Però è vero: prevedo poca trippa per gatti, senza contare che certe facce farebbero scappare le baldracche di Amburgo.”
“Deficienti!” ci redarguì Mastino “Copenhagen fa quasi un milione d’abitanti, volete che non troviamo da divertirci? E poi, se qua ci va buca, resta sempre la Svezia.”
“Perché, cosa pensi di trovare in Svezia?” chiesi scettico.
“Te l’ho detto: da ravanare.”
“Daje! E tu come lo sai?”
“Lo sanno tutti tranne voi due ignoranti e poi è così perché... perché lo dico io e basta con il disfattismo!”
Certe volte Mastino è proprio indisponente.
La sera passeggiammo per la città e ci recammo per un paio di “Tuborg” in un “bistrot” simil-parigino pieno di gente dall’aria intellettualoide.
Quando fummo riconosciuti come italiani, un tizio con occhialini e barbetta da esistenzialista dichiarò d’essere un grande conoscitore della narrativa italiana; quando gli domandai quali fossero le sue competenze in materia mi rispose: “Don Camillo”...
Intendiamoci: per me Guareschi è uno dei più grandi umoristi nostrani e “Don Camillo” un capolavoro del genere, ma che, tra i tanti libri italiani, uno conoscesse solo quello e pretendesse d’atteggiarsi a esperto della nostra letteratura mi fece sorgere il dubbio di trovarmi di fronte al solito intellettuale da strapazzo, megalomane e pieno di cacca.
Tuttavia rimasi ancor più perplesso - e contrariato - quando tirammo fuori le sigarette (in Germania, profittando del modico prezzo, avevamo comprato alcuni preziosi pacchetti di “Rothman’s” e di “Peer Export”) e fummo assaliti da un nugolo d’avventori dall’aria squattrinata che scroccarono sigarette senza ritegno. Uno ci spiegò che le sigarette in Danimarca erano super tassate: col senno di poi la ritengo una tassazione giusta ma allora mi sentii letteralmente depredato.
A un certo punto Mastino decretò:
“Qua, gente, non si batte chiodo, in compenso ‘sti parassiti si fumano le nostre misere risorse. Meglio andare a nanna. Oltretutto sta per piovere e la pioggia non è l’ideale per rimorchiare.”
Un cupo brontolio preannunciava infatti la fine del bel tempo che aveva sino ad allora accompagnato la nostra avventura. Quando arrivammo al campeggio già pioveva a secchiate e il temporale durò tutta la notte; tuttavia, la mattina dopo, un bel sole caldo illuminava uno spettacolo desolante: il terreno era ridotto a una palude in cui gli alluvionati... pardon, gli ospiti s’aggiravano smarriti cercando d’asciugare le masserizie, soprattutto i due catanzaresi.
Noi tre fummo fortunati: nonostante ci trovassimo circondati da uno strato di fanghiglia alto una spanna, le nostre tende erano quasi indenni. Mastino s’alzò praticamente a mezzogiorno - e solo dopo numerose contumelie da parte di Patata - quando ormai il terreno era drenato e il sole picchiava: il dormiglione trovò già pronta un’enorme spaghettata condita con un vasetto di pomodoro “Star” (materia prima prelevata dalla “cambusa” comune). Peccato non ci fosse parmigiano ma, all’epoca, i frigo portatili non esistevano ancora per cui non avevamo generi deperibili. L’immancabile sequenza d’“ombre” rosse innaffiò il pasto monopiatto.
Intanto il cielo aveva ripreso a rannuvolarsi.
“Che si fa?” chiese Patata.
“Un po’ di siesta e poi andiamo in centro.” decretò Mastino.
“Siesta? Hai ancora sonno? Chi dorme non piglia pesci.”
“Voi due fate pure il cazzo che volete, io torno a dormire... e non mettetevi idee in testa, tanto la Simca non ve la presto.”
“Il solito egoista!” ringhiò Patata.
Verso le quindici, quando Mastino si degnò di svegliarsi, ci recammo in centro sotto una pioggerella gelida e ostinata. Visto che il clima non assecondava le nostre ricerche decidemmo di riparare nella “Carlsberg Gypsothek” – un po’ di turismo culturale ci voleva, tanto per non sentirci dei fissati - che poi non era una gipsoteca ma un museo vero e proprio, piuttosto pregevole e soprattutto “a dimensione umana”, ma qui mi sia consentito un chiarimento.
Personalmente trovo asfissianti i “musei-monstre” dove trovi di tutto e di più, da cui esci distrutto dopo avere percorso chilometri e tanto stufo da convincerti che, in fondo gli antichi egizi scolpirono statue tutte uguali, Raffaello non era altro che un imbianchino e Canova una scalpellino. Contengono - è vero - tesori incomparabili ma sono dispersi in mezzo a tanta di quella roba che, alla fine, una persona normale come me viene assalita da un senso di nausea. In particolare trovo micidiali le sale - spesso numerose - che ospitano certi “lenzuoloni” di Pietro Paolo Rubens (pittore fiammingo del 600): poiché non è possibile che a un solo uomo sia bastata un’intera vita per dipingere tanta mercanzia, penso si tratti di lavori elaborati dalla sua bottega, la quale doveva essere una sorta di “General Motors” della pittura secentesca, che sfornò quantità industriali d’enormi e inguardabili dipinti.
Per visitare la “Carlsberg Gypsothek” con una certa attenzione impiegammo tre ore scarse, vedemmo parecchie opere notevoli e ci riparammo dalla pioggia: una rilassante parentesi culturale, in definitiva.
All’uscita, fermi sul marciapiedi, stavamo decidendo circa il da farsi quando una Fiat 1100 bianca con targa della nostra città c’indirizzò una strombazzata. S’immagini la nostra sorpresa quando vedemmo che si trattava di “Ciccio”, un compagno d’università che infilava trenta e lode uno dietro l’altro, ma che, quanto al resto, era ritenuto da molti un perfetto imbranato.
Ciccio scese dalla 1100 bestemmiando come un turco e, dopo i saluti di rito, ci espose la sua triste vicenda.
In sostanza era accaduto questo: due suoi compari, un mese prima, al mare, avevano conosciuto due ragazze di Copenhagen che li avevano invitati a trascorrere qualche giorno nella loro città; il guaio era che i due compari non avevano un automezzo, mentre lui aveva la 1100. Tanto avevano brigato e tanto avevano promesso (Roba tipo: “Suvvia Ciccio, che ti costa darci uno strappo? Non c’è problema: figurati se quelle due non hanno qualche amica. Pensiamo noi a trovarti compagnia” e via dicendo) che Ciccio aveva acconsentito. Una volta giunti a Copenhagen i due infami s’erano insediati a casa delle due ragazze e avevano scaricato il meschino da un affittacamere lasciandolo con un palmo di naso.
“Quei mascalzoni... Quelle carogne... Quei figli di troia!” sbraitava come un ossesso “Da tre giorni giro come un mona per ‘sta dannata città perché non so cosa fare!... Ah, ma so ben io come sistemare quei due: adesso prendo su e me ne torno in Italia da solo... Io li distruggo... Io m’incazzo! Proprio così, io m’incazzo!”
Ciccio rifiutò quindi il nostro invito a consolarsi con una birra in nostra compagnia, risalì bestemmiando a bordo della 1100 e riprese il suo vagabondare.
Non seppi mai come andò a finire ma dubito che i due scellerati mantenessero le promesse; dubito peraltro che Ciccio li abbia piantati in asso, per due motivi: in fondo Ciccio sperava che finalmente un’amica delle due danesi saltasse fuori e poi era noto come soggetto alquanto parsimonioso, di conseguenza la sola idea di non spartire il costo della benzina per il ritorno in patria lo sgomentava.
“Qua continua a piovere per cui sono rotto. Domani vediamo se in Svezia il tempo migliora.” decretò Mastino.
Concludemmo la piovosa serata in una “Cafeteria” ingollando “smörrenbröd” (= pane e burro), tipiche tartine danesi ad alto tenore di colesterolo e guarnite con i più svariati ingredienti: si trattava d’una delle poche specialità locali commestibili, a patto di controllare la guarnizione onde evitare il rischio di scegliere aringhe crude su marmellata di lamponi o paté di fegato di merluzzo.
In proposito, illustrare la cucina scandinava dell’epoca richiederebbe un disgustoso memoriale a parte; per questo motivo, e per evitare conati di vomito a chi legge, credo sia meglio soprassedere... ma temo dovrò tornare ancora sull’argomento.
Poi le solite due o tre birrazze e infine in tenda a beccarci i reumatismi.
L’APPRODO IN SVEZIA
Attualmente il Sund (braccio di mare tra Danimarca e Svezia) è superato da un ponte perché lassù, se un ponte à fattibile, lo fanno in quattro e quattr’otto; non come da noi, dove da decenni si farnetica circa irrealizzabili ponti senza concludere un beato piffero e sperperando denaro pubblico.
Allora il breve braccio di mare (venti minuti di traversata) era superato da piccoli traghetti misti per veicoli su gomma e carri ferroviari, frequentissimi ed economici, i quali univano Elsinore (DK) - dove sorge il castello di Amleto - a Halsingborg (S).
Finalmente approdammo sul suolo svedese e lì trovammo tre novità sconcertanti, una attesa, l’altra no, la terza quasi.
Quella attesa era che all’epoca in Svezia i veicoli procedevano sul lato sinistro della carreggiata, come in Inghilterra, ma il bravo Mastino - a parte qualche iniziale crisi d’imbranamento sulle rotonde - imparò a cavarsela quasi subito.
Poco dopo gli eventi narrati la Svezia passò alla circolazione sulla corsia destra; anche se la rivoluzione fu facilitata dal fatto che da tempo nel paese circolavano solo vetture con il volante a sinistra, la facilità con cui si svolse l’operazione suscita ancor oggi la mia meraviglia. I responsabili allestirono l’opportuna segnaletica modificata e la tennero coperta fino alla mezzanotte d’un giorno che non ricordo (ma ricordo i telegiornali dell’epoca), quindi in pochi minuti i vecchi segnali vennero disattivati, quelli nuovi attivati e gli automobilisti svedesi si portarono come un sol uomo sulla corsia alla loro destra. Va detto che a mezzanotte, nel paese, la circolazione era limitata ma che la rivoluzione si sia svolta senza incidenti di rilievo a me sembra tuttora incredibile.
Se penso che gli inglesi si tengono e si terranno nei secoli dei secoli la loro dannata guida a sinistra (oltre che la loro svalutata sterlinetta), ritengo che la buonanima del generale De Gaulle non avesse poi torto a volerli fuori dalla CEE, ma questa è un’opinione personale.
La novità inattesa era che già nel 1965 tutte le stazioni di rifornimento svedesi erano a self service, con numerose colonnine e un solo addetto alla cassa nello “shop” annesso alla stazione; la faccenda funzionava così: uno si riforniva, andava nello “shop” dove, se voleva, trovava lubrificanti e altri articoli per l’auto, snack, bibite rigorosamente analcoliche, giornali, souvenir, sigarette (carissime), preservativi, caffè dalla macchinetta, pagava e se ne andava. Con questo sistema bastava un solo addetto a gestire una grossa stazione e, di conseguenza, si potevano abbattere i costi.
Adesso sembra una banalità perché quasi tutti i distributori europei funzionano con questo sistema, tranne in Italia, dove stenta a prendere piede in quanto anche un distributore con due colonnine deve sfamare tre o quattro bocche. Risultato: gli addetti guadagnano una miseria e abbiamo i costi del carburante che sappiamo.
Al primo rifornimento restammo mezz’ora in attesa che qualcuno si degnasse di farci il pieno, poi un cortese automobilista locale ci spiegò a gesti che dovevamo arrangiarci e – con le rituali “eresie” tipicamente venete – provvedemmo, sia pure spandendo all’esterno un paio di litrozzi.
La novità quasi attesa era che i prezzi scandinavi presentavano, rispetto a quelli italiani, una differenza che andava dal 20% al 60% secondo i casi (però alcuni generi costavano meno come, appunto, la benzina): sapevamo qualcosa fin dalla partenza e già in Danimarca avevamo avuto qualche avvisaglia, però in Svezia la “forbice” era più accentuata. D’altronde il potere d’acquisto del cittadino medio svedese era ben più alto rispetto a quello del cittadino medio italiano, quindi per lui la vita era meno cara che in Italia, dove ci si cullava in un “boom” rivelatosi in gran parte illusorio ed effimero, mentre Roma era ancora circondata da borgate fatiscenti popolate da emarginati e nei “Sassi” di Matera convivevano ancora bestie e cristiani.
D’altronde il privilegio d’abitare nel paese più bello del mondo (e dove si mangia e si beve meglio) ha un alto prezzo e noi italiani lo pagavamo, lo paghiamo e lo pagheremo sempre, però non bisogna tirare troppo la corda... Ma questo è un altro discorso.
Ci sarebbe da citare una quarta novità che ignoravamo: in Svezia era già in uso il temutissimo “palloncino”; per pura fortuna la cosa non ci non ci riguardò altrimenti sarebbero stati guai seri.
A LANDSKRONA
Appena sbarcati, Mastino decretò:
“Adesso si va a Landskrona, è a tiro di sputo.”
“Landskrona?” chiese Patata consultando la carta “Perché proprio a Landskrona? Non è neanche sulla strada per Stoccolma.”
“Perché a Landskrona c’è una mia pen-friend.”
“Ancora con ‘sta storia delle pen-friend! Non t’è bastata la figura di merda che ha fatto ‘sto sfigato?” disse Patata indicandomi.
“Piano con le parole!” m’incazzai “Altrimenti risalgo sul traghetto, torno a casa e vi mando affan...”
“Piantatela voi due!” troncò Mastino “Si va a Landskrona perché sta bene a me; se vi va è così, se no fuori dalla mia macchina!”
Appena giunti a Landskrona, Mastino parcheggiò la Simca e decretò:
“Adesso compriamo qualcosa, cerchiamo una cabina per telefonare alla tizia, e poi...”
“E poi?” domandammo io e Patata a una voce.
“Grandi speranze... se non altro per me.”
“Il solito egoista!” disse Patata “Almeno domandale di racimolare un paio d’amiche, possibilmente decenti.”
“Vedrò cosa posso fare per voi pellegrini... Forza, smontare!” ordinò Mastino.
“Andate voi due: io preferisco restare in macchina.” borbottò Patata.
“Come preferisci.” rispose Mastino.
Dopo qualche metro dissi:
“Vedi? L’hai fatto incazzare.”
“Vorrà dire che poi si disincazza... E muoviti!”
Comprammo qualcosa imprecando contro il costo della vita scandinava poi Mastino si chiuse dentro una cabina telefonica, confabulò circa mezz’ora e alla fine uscì con aria pimpante dicendo:
“Certo che il tedesco che parlano qui è un po’ difficile da capire, però è fatta.”
“In che senso?”
“Stasera siamo invitati a cena tutti e tre.”
“A cena? Ci sarà qualche amica per il dopo cena, spero.”
“No, solo lei e i genitori. Non ho ritenuto opportuno chiederle un paio d’amiche per voi due... Capirai, dopo il pasticcio che hai combinato con la tizia di Flensburg...” Tutt’un tratto Mastino s’interruppe “Porca la!... Dove diavolo s’è cacciato quel mona di Patata?”
Eravamo arrivati al parcheggio e la Simca era vuota e abbandonata!
“Guarda qua! Quel disgraziato ha lasciato le porte aperte...” esclamò Mastino con le mani nei capelli “Ah già, mi sono portato dietro le chiavi... Ma cosa combina quello scimunito?... Parla solo francese, pure male, e sarebbe capace di perdersi anche nei cessi pubblici!”
Mastino appariva nel marasma più totale e anch’io mi guardavo attorno sconcertato: in fondo non si trattava d’una gran perdita ma il fatto era comunque increscioso.
In quella un garbato ed elegante gendarme ci s’avvicinò e disse in perfetto inglese.
“Cercate il vostro amico? L’abbiamo portato al comando, dall’altra parte della strada.”
Siccome l’unico che s’arrabattava con l’inglese ero io, chiesi con ansia:
“Al comando? Che reato ha commesso?”
“Nessun reato.” ridacchiò il giovanotto “S’è solo sentito poco bene ed è venuto da noi per cercare aiuto.”
“Che cazzo dice lo sbirro?” chiese Mastino sempre più turbato.
“Dice che Patata è al comando e che...”
“Lo sapevo! Non dovevamo lasciarlo solo! Quello ha allungato le zampe sulla prima che passava... Adesso ci sbattono al fresco tutti e tre! Spero almeno che ci mettano nella stessa cella così lo strangolo.”
“E lasciami finire! Patata s’è solo sentito male e lo stanno assistendo.”
Trovammo Patata sdraiato su un divano e accudito da due graziose poliziotte (Piacevole constatazione: infatti all’epoca le poliziotte italiane non erano state ancora inventate): non sembrava affatto che soffrisse, anzi.
“Ebbene, piattola, che t’ha preso?” chiese Mastino.
“Niente di grave: i miei soliti disturbi del ritmo cardiaco. Però il farmacista non può darmi la specialità se non presento la ricetta firmata da un medico svedese.”
“Quindi?”
“Quindi io e gli sbirri aspettavamo solo voi due per andare all’ospedale.”
Infatti subito dopo Patata venne fatto accomodare su una “Rekord” della gendarmeria e portato all’ospedale con tanto di lampeggiante e sirena, mentre io e Mastino seguivamo a bordo della Simca.
All’ospedale i cortesi agenti si congedarono augurandoci buona fortuna, quindi Patata venne fatto sedere in sedia a rotelle e preso in consegna da un’infermiera che – camice a parte - somigliava ad Anita Ekberg in “La dolce vita”.
“Osteria che gnocca!” rantolò il paziente “E chi guarisce? Una come questa il ritmo cardiaco te lo manda in vacca!”
Con tipico intuito femminile, l’infermiera comprese il significato della battuta e sfoderò un radioso sorriso.
Dopo breve attesa in un’elegante saletta, Patata venne accolto dal cardiologo e trattenuto in ambulatorio un paio d’ore, dopo di che uscì con in mano una cartellina e un campione di farmaco che gli bastò per il resto del viaggio.
Da aspirante medico, Patata non mancò d’apprezzare l’accurato servizio prestatogli: anamnesi, check-up cardiologico, temperatura, pressione, riflessi, peso eccetera. Inutile aggiungere che il cardiologo parlava un francese perfetto.
Terminata la visita, la bella infermiera - quasi scusandosi - disse in inglese:
“Sorry, ma il paziente è straniero e deve pagare il ticket.”
Spesa complessiva: l’equivalente di circa 1000 lirette! Poco anche per l’epoca, un’epoca in cui, in Italia, negli ospedali c’erano ancora le corsie da sessanta posti letto, le suore, i “baroni” con codazzo di dottorini ossequiosi e dove chi aveva i soldi poteva curarsi e chi aveva solo la Cassa Malattie... ciccia!
Una pillola e i disturbi di Patata cessarono in pochi minuti. Risaliti in macchina piantammo le tende al camping di Landskrona, dopo di che Patata disse a Mastino:
“Adesso parliamo di cose serie... Hai contattato la tizia?”
Quando Mastino ebbe esposto il suo resoconto, Patata prese a sghignazzare.
“A cena con mamma e papà! Và avanti tu che a me viene da ridere!”
“Ridi? Si vede che non sai come funzionano le cose qui in Svezia.” ribatté Mastino sdegnoso.
“Perché? Come funzionano le cose qui in Svezia?”
“Funzionano così: dopo cena i genitori si mettono davanti alla televisione e la tizia s’apparta con il moroso.”
Patata si fece cupo.
“S’apparta? Nella camera di lei?”
“E dove se no?”
“E tu come lo sai?” chiese Patata sempre più incupito.
“Lo sanno tutti tranne voi due ignoranti... Uffa! Adesso basta con le domande.”
“Basta un’ostrega! Tu non sei il moroso della tizia.”
“Quanto sei pedante! Vorrà dire che stasera fingerò d’esserlo.”
“E le amiche per noi?”
“Io chiedere alla tizia di trovare due amiche per due scalzacani come voi? Se è uno scherzo non mi fa ridere: mica voglio sputtanarmi in terra straniera, io.”
“E mentre tu sei appartato noi due che facciamo?”
“Non sono capperi miei.”
“Dicci almeno per quanto tempo intendi lavorarti la tizia.”
“Dipende da tante cose.”
“E noi dovremmo stare ad aspettare i tuoi porci comodi?”
“Niente affatto: potete tornare in campeggio a piedi.”
“Cazzo! Sono almeno cinque chilometri!”
“Una passeggiata dopo cena non può farvi che bene... E adesso basta veramente.”
“Tu ci godi a tirare porcate!”
Ci preparammo per la cena e all’ora prefissata (non ricordo, ma forse erano le 18: nei paesi nordici si cena di buon’ora) ci trovavamo davanti alla linda villetta in cui dimorava la “pen-friend” di Mastino.
La fanciulla era meglio di quella incontrata a Flensburg ma non era nemmeno la tipica bellezza svedese vagheggiata dai tamarri: carina e simpatica ma niente di particolare. Non dico di più perché non ne ricordo le fattezze e se non le ricordo significa che non lasciò un ricordo indelebile.
I genitori erano persone distinte e garbate e, in proposito, devo dire che trovammo gli svedesi molto garbati anche se un po’ formali (chissà se è ancora così), eccetto i “raggar”... Chi erano il “raggar”? Leggete più sotto e lo saprete.
Non ricordo nemmeno cosa mangiammo, se non che si trattava di zozzerie frutto della tragica usanza culinaria - tipica delle genti nordiche - di mischiare il dolce con il salato: in quelle terre per molti versi tanto civili era impossibile mangiare qualcosa di decente. Perfino il pane (solo a cassetta e di produzione industriale) era addizionato con zucchero per cui manco potemmo farci qualche panino con il salame (anch’esso di produzione industriale e di qualità infima) o con il formaggio (praticamente si vendevano solo sottilette), ma unicamente con burro e marmellata, due delle poche “perle” della gastronomia nordica.
L’unica pietanza che rammento fu un trancio di cavolfiore semicrudo e senz’ombra di condimento!
Per dovere d’ospitalità dovemmo ingollare quella robaccia innaffiandola con beveroni dolciastri dal gusto ambiguo e lodando le virtù culinarie della padrona di casa.
Terminata la cena, la svedesina annunciò che l’indomani doveva alzarsi presto per via di certi suoi impegni con gli scout (mi pare) e si ritirò salutandoci e raccomandando a Mastino di proseguire la corrispondenza. Poco dopo anche i genitori ci fecero educatamente capire che dovevamo toglierci dai piedi, e meno male, se no io e Patata - a forza di trattenere il riso - ce la saremmo fatta nei pantaloni.
Appena fuori scoccò l’ora della MIA vendetta (in ciò fui appoggiato da Patata che, anche se da sempre suo amicone, mal sopportava l’arroganza del compare) e, per Mastino, l’ora della SUA umiliazione.
“Fammi capire:” ghignai “non dovevi appartarti con la tua bella?”
“E noi” incalzò Patata “Non dovevamo farci una bella scarpinata fino al campeggio... o mi sfugge qualcosa?”
Poi io e Patata a una voce:
“Sceee-mo! Sceee-mo!”
Né io né Patata tenemmo conto del fatto che Mastino aveva il coltello dalla parte del manico (o meglio la Simca dalla parte del volante), ragion per cui, dopo qualche secondo d’impietosi sfottò, esplose:
“Smettetela immediatamente, frocioni, altrimenti la scarpinata ve la fate sul serio!... Adesso non ridete più, eh?” poi, come volesse convincere sé stesso “Bah, in fondo non ho perso granché... E dire che in foto sembrava una gran gnocca... A conti fatti meglio perderla che trovarla.”
Inutile dire che né io né Mastino rinnovammo l’iscrizione al “Pen-Friend Club”, infatti troppe iscritte taroccavano le foto e tiravano bidoni.
L’indomani mattina partimmo completamente rappacificati e sereni come il cielo da cui, nel corso della nottata, erano sparite le nubi
A questo punto qualcuno potrà chiedersi come mai - nonostante scoppiassero baruffe, a due o a tre, almeno venti volte al giorno, nonostante ci lanciassimo continui e sanguinosi insulti spesso riguardanti le rispettive madri o i rispettivi defunti - non fosse volata ancora qualche sberla, e non ne volarono per tutto il viaggio. A tale domanda rispondo che allora era così: non dominavano i rancori, i livori, le ripicche che oggigiorno portano ad assurde e tragiche conclusioni episodi anche banali (e noi vecchi non siamo immuni da simili pazzie). Tali comportamenti erano solo un sistema alternativo - “diversamente cordiale” oso dire - di gestire i rapporti umani... non so se rendo l’idea.
Ma procediamo.